Giovanni Della Pace

Nel Camposanto di Pisa, su una tomba, si legge un epitaffio risalente agli inizio del secolo XVII, che inizia con:“nobile Johannis gaudet de pace sepulcrum/ quod cernis, lector, spiritus alta tenet”, la tradizione erudita locale ha amplificato le poche notizie di questa iscrizione affermando che si trattava di un nobile vissuto come eremita che, al suo rientro in città, edificò una chiesa dedicata alla SS. Trinità e un oratorio a San Giovanni Evangelista. Presso quest’ultimo avrebbe fondato una comunità di disciplinati. Mons. G. Barsotti, in un lavoro pubblicato a Pisa nel 1901, dimostrò che i versi dell’epigrafe sepolcrale potevano essere riferiti a tre diversi personaggi, da lui identificati grazie ad accurate ricerche. Il primo è Giovanni, appartenente alla famiglia dei Della Pace, morto nel 1260. Il secondo un certo Giovanni della Pace, pellicciaio, vissuto santamente in matrimonio e morto in odore di santità nel 1433. Il terzo un “frater Johannis Pinsoculus quondam Vannis de Cappella sanctae trinitatis”, di cui si fa menzione in un atto del 1355. Il luogo presso cui visse in città si chiamava appunto “Porta della Pace”. Il Barsotti indicò come probabile l’identificazione del beato Giovanni della tradizione con quest’ultimo. Una “Compagnia del beato Giovanni” è sopravvissuta fino al 1782. Fino al 1856 era sepolto nel Cimitero Monumentale di Pisa in una tomba decorata da affreschi; da quell’anno le sue reliquie furono traslate nella Chiesa di San Francesco a Pisa.

Da: G. Zaccagnini, Schede agiografiche, in Devozione e Culto dei Santi a Pisa nell’iconografia a stampa, a c. di S. Burgalassi e G. Zaccagnini, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1997.

Giovanni CINI, (Giovanni della Pace), beato. – Nacque a Pisa, probabilmente intorno al 1270, da umile famiglia; per vivere, infatti, si arruolò come soldatus o stipendiario al servizio del Comune di Pisa. Ancora giovane – sicuramente prima del 1295 – entrò nell’Ordine dei frati della penitenza, o Terz’Ordine francescano, non rinunciando tuttavia alla professione delle armi e conducendo ancora, sembra, una vita poco edificante.

La vera conversione del C. all’ideale evangelico fu determinata sicuramente da un avvenimento eccezionale. Ne sono testimonianza sia il sorgere di leggende intorno ad essa -rivelatrici di un avvenimento non comune, ma che tuttavia devono ritenersi false, in quanto si riferiscono a episodi posteriori alla morte di Giovanni – sia un lascito testamentario (1391) di Parasone Grasso, operaio dei duomo di Pisa, a favore della Compagnia di S. Giovanni Evangelista affinché si dipingesse nella sede della Compagnia la “historia fratris lohannis soldati”. L’affresco, eseguito in osservanza alle disposizioni testamentarie, è andato perduto (già nel 1689 se ne scorgevano solamente alcune tracce); ciò non consente di stabilire con precisione l’episodio che fu causa della conversione del Cini. Il Barsotti identifica tale episodio con l’attentato che fu perpetrato l’8 ott. 1296 da Ciommeo Cappone della famiglia dei Lanfranchi, aderente alla fazione dell’arcivescovo Ruggiero, ai danni dell’amministratore generale dell’arcivescovo eletto di Pisa Teodorico. Alcuni documenti riferiscono che faceva parte degli attentatori un soldato che aveva vestito l’abito dei frati della penitenza, probabilmente il C.; la conversione sarebbe maturata nel carcere, in cui egli sarebbe stato rinchiuso per il misfatto.

Dopo la conversione definitiva il C. dedicò la sua vita all’assistenza dei bisognosi. Già prima del 1312 egli non era più allo stipendio del Comune di Pisa come soldato ed è certo che già nel 1305 godeva fama di uomo pio, poiché in quell’anno fu designato tra le dodici persone spirituali che, elette a vita, potevano intervenire direttamente negli affari della Pia Casa della misericordia. Era questa una fondazione assistenziale di Pisa, di cui il C. fu uno dei promotori e i cui statuti furono approvati il 16 marzo 1305 dall’arcivescovo fra’ Giovanni di Polo. Il C. ricoprì più volte cariche direttive della Pia Casa fino al 1319, anno in cui non compare più tra. i componenti della magistratura di quell’istituto: evidentemente in quel periodo egli si ritirò dalla vita pubblica per vivere da eremita.

Non si conosce il luogo che il C. scelse come eremo, ma esso doveva trovarsi nelle vicinanze di Pisa. Nella città infatti la fama intorno alla sua persona crebbe rapidamente e un gran numero di fedeli che volevano seguire il suo esempio si riunirono sotto il nome di fraticelli della penitenza; ad essi fu affidata la custodia del romitorio di S. Maria della Sambuca, presso Livorno, in cui nel 1332 lo stesso C. si trasferì, fondandovi, sembra, un ospedale per poveri e pellegrini. In seguito, il C. trascorse gli ultimi anni della sua vita nel romitorio di S. Giovanni Evangelista in Porta Pacis (da cui fu comunemente chiamato Giovanni della Pace) a Pisa fondandovi probabilmente la Compagnia e l’oratorio dei disciplinati di S. Giovanni Evangelista: fondazione che ebbe il compito di assistere spiritualmente e materialmente i bisognosi che si vergognavano di mendicare pubblicamente.

Il C. morì in questo romitorio, in una cella che si racconta egli avesse fatto murare, lasciando aperta solamente una finestrella; ignoto è l’anno della sua morte.

Fu sepolto nel camposanto di Pisa presso la porta Maggiore, in un’arca marmorea pagana riadattata; più tardi (1387 0 1388) la tomba fu decorata da un affresco di Antonio Veneziano, raffigurante il beato attorniato da quattro angeli. Il culto del C., sorto subito dopo la sua morte, fu approvato da Pio IX il 10 sett. 1857; la sua festa viene celebrata il 12 novembre. Alcune reliquie del beato, una volta conservate nell’oratorio della Compagnia dei disciplinati di S. Giovanni Evangelista, soppressa da Pietro Leopoldo I di Toscana nel 1785, si trovano nella chiesa di S. Anna a Pisa. Il suo corpo, dopo la beatificazione, fu portato nella chiesa di S. Francesco a Pisa, dove è tutt’ora conservato nella cappella della sacrestia.

Nella tradizione storiografica il C. è stato spesso confuso con un omonimo, anch’egli terziario francescano, nato a Pisa nel 1353, di professione pellicciaio, sposato e con figli. Ciò ha fatto riferire la conversione del beato ad  avvenimenti a cui, per la loro datazione, avrebbe potuto prendere parte il C. pellicciaio.

(M. Franceschini, in Dizionario Biografico degli Italiani, dal sito www. Treccani.it )




BEATA GHERARDESCA

Al pieno Duecento appartiene la vicenda terrena della beata Gherardesca, narrata da una Vita latina composta da un monaco di S. Savino, probabilmente il suo confessore, pervenutaci priva della fine e con lacune nel passionario trecentesco citato sopra, pubblicata nel 1688 dal Bollandista Daniel Papebrock negli Acta Sanctorum al 29 di maggio. In età moderna, a motivo del nome, si è falsamente ritenuto che appartenesse alla famiglia dei conti Della Gherardesca. In realtà l’autore della Vita niente dice della casata della santa, tuttavia piuttosto elevata, dal momento che ella era consanguinea di un abate di San Savino, forse Urbano, attestato dal 1228 al 1236.

La Vita di Gherardesca si presenta come un testo di difficile lettura, pieno di episodi oscuri, visioni ed eventi soprannaturali, con un linguaggio simbolico molto elaborato, mentre l’agiografo evita in genere di parlare in modo esplicito delle diverse vicende terrene della santa. Ricco di visioni, miracoli, sogni, apparizioni e prodigi della più varia natura, il testo descrive un cammino fortemente interiorizzato. Frequenti furono le lotte contro il demonio. Per queste sue vittorie Gherardesca ottenne da Dio molti ed eccezionali doni mistici: leggeva nel pensiero, vedeva a distanza, compiva pellegrinaggi in spirito, riceveva frequenti apparizioni di Cristo, degli angeli e dei santi, in particolare degli apostoli Giovanni e Giacomo; inoltre fu dotata di virtù taumaturgiche.

Fin da bambina Gherardesca apparve ripiena di virtù e a sette anni fuggì addirittura in un monastero, da dove la ricondusse a casa la madre, che all’età opportuna la convinse a sposarsi. Il matrimonio non fu benedetto da una discendenza, per la quale la madre pregava incessantemente: così un giorno la donna ebbe una visione in cui le si rivelava la straordinaria maternità spirituale della figlia in san Giovanni Evangelista, con un’equiparazione quindi alla Madonna. Gherardesca riuscì poi a convincere il marito ad abbracciare la vita religiosa, per la quale i due coniugi scelsero il monastero di San Savino. Qui il marito si fece monaco, mentre ella ricevette una cella, o meglio una piccola abitazione con orto, fuori del circuito monastico, dove visse una vita di penitente, ma la sua dimora era aperta ai visitatori e la stessa Gherardesca ne usciva per recarsi in varie chiese, tra cui in particolare San Martino, ove riposava Bona. Nata dopo la morte di questa, non poté conoscerla, tuttavia la santa comparve tra i personaggi delle sue visioni e le offrì un tralcio di rose: inoltre Gherardesca intrattenne rapporti con i Pulsanesi, sia a San Jacopo de Podio (dove avrebbe voluto essere sepolta) sia a San Michele degli Scalzi e manifestò la sua devozione per l’Apostolo venerato a Compostella. Anche in lei fu presente la dimensione del pellegrinaggio, in questo caso però si trattava di pellegrinaggi in spirito.

Molto forte era naturalmente il legame con San Savino e l’agiografo ce la presenta continuamente sollecita del benessere spirituale dei monaci: in effetti però tale soverchia familiarità e addirittura invadenza non erano del tutto graditi e la Vita fa trasparire i contrasti al riguardo. Si giunse addirittura ad una scomunica, pronunciata dal priore di Camaldoli, contro cui il procuratore di Gherardesca si appellò il 5 luglio 1269. Si ignora l’anno della morte: fu sepolta nella chiesa di San Savino, ove però già nel XVIII secolo non vi era traccia della tomba.

Culto:

Il papa Pio IX nel 1856 concesse la celebrazione dell’ufficio al 5 giugno.

Bibliografia:

  1. Caby, La saintetè fèminine camaldule au Moyen Age: autour de la b. Gherardesca de Pise, in «Hagiographica,» I (1994), pp.235-269; G. Zaccagnini, Schede agiografiche, in Devozione e culto dei santi a Pisa nell’iconografia a stampa, a cura di S. Burgalassi – G. Zaccagnini, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1997 (Opera della Primaziale pisana. Quaderno 7/2), pp. 57-78, alle pp. 65-66; M.L. Ceccarelli Lemut, Santità femminile a Pisa tra XII e XIII secolo, in Medioevo e dintorni. Studi in onore di Pietro De Leo, a cura di M. Salerno – A. Vaccaro, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011, I, pp. 103-115.




Florida Cevoli

Florida Cevoli

(immagine tratta dal sito www.santiebeati.it)

Lucrezia Elena Cevoli, figlia del conte Curzio e di Laura Della Seta, nacque a Pisa l’11 novembre 1685. Dopo cinque anni di formazione culturale e spirituale nel collegio pisano di San Martino, a 17 anni entrò nel monastero delle Cappuccine di Città di Castelli dove, con il nome religioso di Florida, fece noviziato sotto la guida di Santa Veronica Giuliani (1660-1727), pronunciando poi i voti nel 1705.  Eletta suora superiora nel 1727, resse la comunità con sapienza e vigore; fra le iniziative da lei promosse si ricorda soprattutto la fondazione del Monastero di Mercatello. Come santa Veronica, alla quale fu molto legata, anche Florida ricevette le stimmate grazie alle quali la fama della sua santità si sparse ovunque. Morì il 12 giugno 1767.

La prima biografia è costituita dall’opera di Francesco Gemelli: Compendio delle virtù, doni e prodigi di Suor Florida Cevoli, Roma 1838-1840. L’autore, postulatore della causa di beatificazione, ha utilizzato informazioni tratte dalle testimonianze raccolte negli Atti del Processo.

Ritenuta santa dai suoi contemporanei, la fama di Florida fu confermata dalla scoperta sul suo cadavere di alcuni segni ricondotti al fenomeno delle stimmate. La causa, istruita nel 1838, si è conclusa recentemente con la beatificazione ufficiale, annunciata da Giovanni Paolo II il 16 maggio 1993.

Da: G. Zaccagnini, Schede agiografiche, in Devozione e Culto dei Santi a Pisa nell’iconografia a stampa, a c. di S. Burgalassi e G. Zaccagnini, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1997.

PREGHIERA DELLA BEATA FLORIDA CEVOLI

Iesus amor, fiat voluntas tua! Fa, Gesù, che eternamente ti ami, e patire e morire per te io brami. Crocifisso Gesù, mio Redentore, stampatemi le vostre sante piaghe in mezzo al cuore.  Chi avesse una scintilla di questo amore non sentirebbe niente di grave

quanto di penoso si può mai trovare.

Pregate per me acciò cominci ad amare per questo poco che mi resta di vita,

giacché nulla ho fatto finora.
(b. Florida Cevoli)

Dal sito www.fraticappucciniassisi.it




Papa Eugenio III

Papa Eugenio III    Stemma

di Harald Zimmermann
Eugenio III,beato. Il Papa pisano

Il Liber Pontificalis, la raccolta ufficiale delle biografie dei pontefici medievali, qualifica Eugenio III «natione Tuscus, patria Pisanus, qui Bernardus, sancti Anastasii abbas», ossia toscano di nascita, pisano per patria, di nome Bernardo, abate di Sant’Anastasio. È dunque taciuto qualsiasi riferimento alla famiglia di appartenenza così come l’eventuale provenienza da una località minore del territorio pisano: tuttavia, al di là di queste scarne parole, è possibile individuare le tappe principali del suo percorso biografico prima dell’ascesa al soglio pontificio.

La prima notizia certa lo presenta come suddiacono della canonica cattedrale pisana nel settembre 1125, allorché sottoscrisse un atto solenne dell’arcivescovo Ruggero, come secondo dei tre suddiaconi, ossia in una posizione tale da indicare che egli non era né il più anziano di nomina, che firmò per primo, né il più giovane, ma già da qualche tempo si trovava in quel grado. Ciò suggerisce anche un’ipotesi sulla sua età, sicuramente superiore a vent’anni, e sull’anno di nascita, da porre intorno al 1100.

Il successore di Ruggero, l’arcivescovo Uberto, eletto all’inizio del 1133, lo nominò visdomino, ossia amministratore del patrimonio arcivescovile, ufficio sovente affidato in quel periodo a canonici. Diversi documenti attestano l’attività amministrativa di Bernardo, dall’aprile 1133 al 9 maggio 1138. Degno di particolare menzione è il fatto che per conto della Chiesa pisana egli voleva ricostruire il castello di Montevaso, distrutto nel primo decennio del XII secolo, e che salì in quel luogo con alcuni monaci di Clairvaux con l’intenzione di erigervi un monastero. Quest’ultima notizia è molto importante, poiché segnala l’esistenza di rapporti con i monaci cisterciensi. Malauguratamente non conosciamo la data esatta dell’evento, ma si deve a questo punto ricordare che la nostra città strinse relazioni con l’Ordine cisterciense negli anni Trenta del XII secolo, ma già prima un illustre pisano, Baldovino, si era fatto monaco a Clairvaux (vedi Baldovino arcivescovo).

Fu dunque in questo clima che si colloca l’intenzione del visdomino Bernardo di costruire un monastero cisterciense sul Montevaso e che maturò la sua scelta monastica, ispirata dall’esempio di Baldovino ma anche dalla permanenza a Pisa di san Bernardo, abate di Clairvaux. Dopo il maggio del 1138 mancano notizie sulla presenza a Pisa di Bernardo, e anzi dal 10 agosto 1139 risulta sostituito nell’ufficio di visdomino da Omicio, un laico questa volta, nominato dall’arcivescovo Baldovino. Bernardo aveva lasciato Pisa per entrare nell’abbazia di Clairvaux: alcuni anni più tardi egli stesso, ormai papa, nell’incontro con il re di Francia Luigi VII avrebbe ricordato di aver più volte lavato i piatti durante la sua permanenza nell’Ordine Cisterciense («scutellas lavavi quam sepius in Ordine Cisterciensi»).

Ben presto Bernardo si distinse all’interno del suo ordine e fu inviato in Italia, a Roma, nel 1141, ad assumere l’ufficio abbaziale del monastero dei Santi Anastasio e Vincenzo ad Aquas Salvias o delle Tre Fontane, appena restaurato e affidato dal papa Innocenzo II ai Cisterciensi. Non siamo invece certi che sia stato nominato cardinale prete.

Pochi anni dopo egli fu eletto pontefice, il 15 febbraio 1145, il giorno stesso della morte del suo predecessore Lucio II in seguito alle ferite riportate nell’assalto al Campidoglio, sede del Senato, l’organo dirigente del Comune di Roma sorto in opposizione al potere temporale del papato. La designazione di Eugenio III, insperatamente unanime («ex insperato concorditer»), ebbe luogo nel refettorio del monastero di San Cesario sul Palatino e l’intronizzazione subito dopo nel Laterano. Ma già la notte tra il 16 e il 17 il nuovo papa dovette abbandonare Roma in rivolta, rifugiandosi nel monastero di Farfa, ove fu consacrato la domenica Exsurge, ossia di Sessagesima, il 18 febbraio.

La scelta era caduta su un personaggio d’indubbio prestigio, in grado di coniugare l’oculatezza amministrativa maturata nell’esperienza di visdomino con le forti istanze riformatrici acquisite a Pisa ed esaltate in ambito cisterciense. Non estraneo alla sua fama dovette essere poi il legame con san Bernardo, testimoniato da quasi quaranta lettere, e dal trattato sulla missione del papa da lui sollecitato e a lui dedicato. La prima di queste lettere commenta l’elezione del nuovo pontefice. Nella lettura di questo, come degli altri testi bernardini, occorre superare l’interpretazione letterale e tener conto della sapienza retorica e del largo uso d’immagini bibliche da parte dell’autore. Così, se può avere ragione d’essere la meraviglia per la scelta di un uomo dedito alla vita contemplativa e alla solitudine e fuggito dagli incarichi temporali, si deve leggere nella definizione di homo rusticanus, avvezzo a maneggiare strumenti di lavoro come la scure, l’ascia o la zappa, non il rimando ad un’origine campagnola (che sarebbe stata in contrasto con l’appartenenza al clero canonicale pisano) bensì il ritratto del perfetto monaco cisterciense il quale, secondo il più genuino spirito benedettino, coniugava la contemplazione con il lavoro manuale: una vocazione mai rinnegata, se è vero che il papa continuò ad indossare l’abito monastico sotto le vesti pontificie.

Il pontificato di Eugenio III fu segnato dalle difficoltà create dall’autonomia comunale romana, con cui il dialogo risultava particolarmente difficile, nonostante il papa rivelasse doti di abilità politica. Per tale motivo i suoi soggiorni a Roma furono brevi e poco numerosi: per lo più egli risiedette in altri centri del Lazio a lui fedeli, come Viterbo, Tuscolo, Ferentino e Segni.

Il pontificato di Eugenio III fu segnato dalle difficoltà create dall’autonomia comunale romana, con cui il dialogo risultava particolarmente difficile, nonostante il papa rivelasse doti di abilità politica. Per tale motivo i suoi soggiorni a Roma furono brevi e poco numerosi: per lo più egli risiedette in altri centri del Lazio a lui fedeli, come Viterbo, Tuscolo, Ferentino e Segni.

Un importante evento fu la predicazione della II crociata in seguito alla caduta, nel Natale 1144, dell’armena Edessa, il più settentrionali degli stati nati dalla I Crociata. All’appello di Eugenio III rispose san Bernardo, che intraprese la predicazione di una nuova spedizione in Terrasanta infiammando gli animi con la sua grande eloquenza. All’iniziativa aderirono i sovrani di Francia e di Germania e l’impresa divenne un affare internazionale, andando oltre le intenzioni del papa che aveva progettato una crociata soltanto italiana e francese. Tuttavia la spedizione, mal preparata diplomaticamente con l’imperatore d’Oriente, si risolse in un disastro anche sul piano militare e non riuscì nell’intento di riconquistare Edessa ai Turchi.

Non è qui il caso di soffermarsi ulteriormente sulle vicende del pontificato di Eugenio III. A noi interessa mettere in luce gli aspetti più rilevanti della sua personalità. Un tratto che emerge dagli oltre mille documenti ufficiali emanati dalla sua cancelleria, è l’estrema attenzione per il mondo monastico, testimoniata dalle numerose concessioni di protezione pontificia (quella che allora si chiamava la libertà romana) ai monasteri autonomi. Particolarmente favorito fu naturalmente l’Ordine Cisterciense, da cui trasse ben tre cardinali e al quale confermò la charta charitatis contenente le norme che ne regolavano la vita, con alcune importanti aggiunte.

Eugenio III morì a Tivoli l’8 luglio 1153 e in seguito fu sepolto nell’oratorio di Santa Maria in San Pietro in Vaticano, dove un’epigrafe ora perduta ricordava le principali tappe della sua vita, la nascita pisana, il soggiorno a Clairvaux, l’abbaziato alle Tre Fontane e il pontificato, ed esaltava la sua fede profonda.

Con lui volgeva al termine un’epoca, quella del papato riformatore, che in lui ebbe l’estremo rappresentante, ultimo di una lunga serie di monaci e di canonici regolari che per un secolo avevano retto le sorti della Chiesa romana. Dopo di lui venne alla ribalta una generazione ispirata alla nuova teologia e alla nuova canonistica, improntata ad una più fredda razionalità, ad un più lucido legalismo e ad obiettivi politici più realistici, che governò la Chiesa in modo sempre più centralizzato. Si verificò allora un mutamento di generazione veramente epocale, sottolineato anche dalla morte quasi contemporanea di san Bernardo di Chiaravalle, il 20 agosto 1153.

Una tradizione inconsistente

Un documento del 5 maggio 1106 contiene l’atto di professione monastica nel cenobio pisano di San Zeno di «frater Petrus quondam Johannis, qui dicebatur Paganellus de Montemagno». Il documento ha dato origine, a partire dalla fine del XVI secolo, ad un’inconsistente tradizione che ha ipotizzato questo Pietro divenire abate di San Zeno per poi cambiare nome, identificandosi con il Bernardo vicedominus arcivescovile e futuro papa Eugenio III; il soprannome del padre si è così trasformato nel cognome di una fantomatica famiglia Paganelli da Montemagno di Pisa. L’attribuzione a tale casata – peraltro inesistente – deriva da un’errata interpretazione compiuta all’inizio del Seicento dall’erudito pisano Raffaello Roncioni (Delle Istorie pisane libri XVI, a cura di F. Bonaini, in «Archivio Storico italiano», VI/1, Firenze 1844, pp. 257-258) relativamente a personaggi chiamati Paganello presenti in due privilegi di Federico I del gennaio 1178: in realtà si trattava di casate lucchesi, da un lato di due membri dei da Porcàri, dell’altro di tre dei da Montemagno: costoro dunque non hanno niente a che fare con Pisa, città di origine di Eugenio III. Inverosimile è immaginare che il pontefice, prima di svolgere l’ufficio di visdomino, fosse stato monaco e priore del monastero di San Zeno essendo impossibile l’identificazione tra Pietro e Bernardo, in quanto il Necrologio del monastero ricorda al giorno 8 marzo la morte dell’abate Pietro. Altamente improbabile è poi che un monaco e priore divenisse canonico suddiacono della cattedrale e visdomino arcivescovile per poi tornare a farsi monaco a Clairvaux.

Culto:

Il culto di Eugenio III compare dalla metà del XVI secolo nei libri liturgici cisterciensi e soltanto il 3 ottobre 1872 ottenne la sanzione ufficiale con la proclamazione a beato da parte del papa Pio IX, su richiesta degli stessi Cisterciensi.

Bibliografia

H. Zimmermann, Eugenio III, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIII, Roma, Istituto per l’Enciclopedia Italiana, 1993, pp. 490-496; M.L. Ceccarelli Lemut, Eugenio III, un papa pisano nel contesto storico della sua città, in «Il Rintocco del Campano», XXXIV (Genn.-Apr. 2004), pp. 24-34; M.L. Ceccarelli Lemut – S. Sodi, Presenze monastiche in civitate vetera. L’abbazia suburbana di San Zeno, in Rentamer le discours. Scritti per Mauro Del Corso, a cura di S. Bruni, Pisa, Pacini Editore, 2015, pp. 155-168, alle pp. 157-158.




Beato Pietro Gambacorta

Beato Pietro Gambacorta

Sebastiano Conca (1680-1764), Papa Urbano VI approva la regola di Pietro Gambacorta,

Pisa, Museo Nazionale di Palazzo Reale 

Le scarne notizie su di lui ci sono pervenute attraverso un breve documento anonimo, di natura agiografica, il Compendium, pubblicato nel Settecento, già conosciuto nel secolo XVII e assegnato dagli eruditi dell’epoca alla fine del secolo XV; in esso si dice che nacque a Pisa nel 1355 dalla famiglia Gambacorta. La tradizione posteriore, senza prove documentarie, fissò l’avvenimento al giorno 16 febbraio. Il nome dei genitori è incerto. Il biografo più recente, P. Ferrara, lo dice figlio di Gherardo e cugino della beata Chiara.

La tradizione colloca tra il 1374 e il 1377 l’allontanamento dalla casa patema. Egli si sarebbe ritirato dapprima presso gli eremiti di Santa Maria del Santo Sepolcro, presso Firenze, successivamente avrebbe visitato Vallombrosa, Camaldoli e La Verna.

Nel 1380 si ritirò sul monte Cesana, presso Urbino, in località Montebello, dove eresse un cenobio e un oratorio dedicato alla Santissima Trinità. Era con lui, o forse gli si unì poco dopo, un cerro Pietro di Tuccino da Pisa. Oltre ai consueti esercizi della vita ascetica, sembra che Pietro si occupasse dell’assistenza agli esiliati per ragioni politiche. Ispirato alla vita di san Gerolamo, faceva professione di povertà rigorosa e si imponeva severe penitenze, obblighi che trasmise anche ai suoi seguaci, cui propose inoltre la meditazione e lo studio della Sacra Scrittura, e il lavoro manuale.

Intorno al 1393 si unì a lui Angelo di Corsica, che guidava un gruppo di membri del Terz’Ordine di San Francesco, i quali praticavano la vita eremitica nei pressi di Rimini, in località Scolca.

Angelo portò avanti un movimento già avviato in precedenza. Attraverso la sua opera sorsero i conventi di Venezia, di Santa Maria Maddalena in Padova, di Santa Maria della Misericordia, fuori dell’abitato di Ferrara, di Talacchio di Urbino, di San Bartolo di Rimini, lasciato in eredità nel 1414 dall’eremita Angelo di Castro Durante. La situazione fu causa di frizioni con l’Ordine francescano, che per lungo tempo, in mancanza di un preciso statuto giuridico degli eremiti facenti capo a Pietro Gambacorta, rivendicò la giurisdizione sui conventi fondati da Angelo di Corsica.

Il I gennaio 1410 il papa Gregorio XII concesse agli eremiti «societatis fratrisi Angeli et fratris Petri de Pisis» di dimorare nei luoghi non soggetti al pontefice. Il documento mostra che Pietro ed i suoi, nel contesto del Grande Scisma d’Occidente, erano fedeli all’obbedienza romana. Il pontefice concesse ai sacerdoti del gruppo di amministrare i sacramenti ai seguaci di Gregorio XII in assenza del clero parrocchiale, di assolvere e riconciliare gli scismatici e di accogliere gli infedeli nella Chiesa.

Intorno al 1417 Pietro ricevette in eredità dall’eremita Giovanni Rigo di Bologna i romitori di San Giovanni in Palazzo e di San Biagio in Selva presso Fano.

Il papa Martino V il 5 luglio 1421 emanò due documenti a favore del gruppo di eremiti: nel primo prese sotto la protezione pontificia Pietro e i suoi compagni, concesse loro l’esenzione dalla giurisdizione dell’Inquisizione, estensibile ai loro successori, oratori e case, persone pertinenti e beni mobili e immobili, e li sottomise alla Sede apostolica e agli ordinari dei luoghi. Il secondo documento è rivolto contro le pretese dei Francescani, che rivendicavano il diritto di visita in base all’appartenenza di Angelo di Corsica al Terz’Ordine di San Francesco. L’autonomia del gruppo fu confermata dal medesimo pontefice il 23 agosto 1422, concedendo agli eremiti la facoltà di scegliere confessori secolari o religiosi, di avere altari portatili sui quali celebrare la Messa senza pregiudizio dei diritti altrui e di ricevere i sacramenti nei propri oratori senza dover chiedere il permesso agli ordinari dei luoghi.

L’espansione della Fraternità proseguì negli anni successivi con i conventi di San Giobbe a Venezia e di San Girolamo a Urbino e con la chiesa di San Marco a Montebirozzo in diocesi di Pesaro. Al gruppo di Pietro si unirono Beltramo da Ferrara con i suoi compagni, che possedevano cinque conventi, e gli eremiti seguaci di Nicola da Forca Palena, originario dei dintorni di Sulmona, che aveva stabilito un cenobio a Roma, nel rione di Sant’Eustachio, e successivamente aveva acquistato conventi nei dintorni di Firenze e a Napoli.

Pietro Gambacorta morì a Venezia il 17 giugno 1435 ma la memoria del suo sepolcro venne presto perduta.

Questa congregazione eremitica, denominata dei Poveri Eremiti di San Girolamo, rimase a lungo in una condizione di precarietà: solo nel 1444 venne emanato il primo testo costituzionale. Fu soppressa dal papa Pio XI nel 1933.

Venezia, chiesa di San Girolamo,

Luogo di prima sepoltura del  beato Pietro Gambacorta

Culto:

La Congregazione dei Riti con decreto del 5 dicembre 1693 riconobbe a Pietro il titolo di beato e il 19 gennaio 1715 concesse all’Ordine di San Gerolamo di poterne celebrare il culto pubblico. La festa, che ricorre il 17 giugno, è celebrata a Pisa, Urbino, Venezia e Napoli.

Bibliografia:

  1. Ferrara, Luci e Ombre nella Cristianità del secolo XIV. Il B. Pietro Gambacorta da Pisa e la sua congregazione (1380-1933), Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1964; S. Giordano, Gambacorta, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, LII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1999.



Beato Antonio Tigrini

Nato a Pisa da famiglia mercantile, dopo aver studiato le lettere e la giurisprudenza, conseguita la laurea dottorale, contrasse matrimonio con una nobil donzella ma, spinto da una chiamata divina, decise di professare il celibato (il matrimonio era solo rato) e divenne frate minore. Pochissime le notizie su questo personaggio. Morì in odore di santità il 15 aprile 1312 nel convento di Monteluco di Spoleto, dove risiedeva dal 1295.

Culto:

Il culto si diffuse subito dopo la sua morte grazie ai numerosi miracoli attribuitigli. Non esiste una festa liturgica.

Bibliografia:

  1. Wadding, Annales Minorum seu trium ordinum a s. Francisco institutorum, VI, Romae, Typis Rochi Bernabò, 1733, p. 215; G. Sainati, Vite dei Santi, Beati e Servi di Dio nati nella Diocesi Pisana, Pisa, Tipografia Mariotti, 18843, pp. 297-298; Idem, Variazioni e aggiunte fatte all’opera Vite dei Santi, Beati e Servi di Dio nati nella Diocesi Pisana, Pisa, Tipografia Orsolini-Prosperi, 1901, pp. 37-39.



Beato Andronico Della Rocca

La tradizione erudita pisana ne ha fatto un membro della nobile famiglia pisana Della Rocca, il quale, dopo l’incontro con Francesco, sarebbe diventato terziario nel convento cittadino, dove morì nel 1251. In realtà sappiamo solo che fu oggetto di culto, perché si ha notizia di una antica tavola, ora perduta, in cui era rappresentato con l’aureola. Nel Martirologio francescano è ricordato il 20 settembre

Tratto da: G. Zaccagnini, I santi nuovi della devozione pisana nell’età comunale (secoli XII–XV), in Profili istituzionali della santità medievale. Culti importati, culti esportati e culti autoctoni nella Toscana Occidentale e nella circolazione mediterranea ed europea, a c. di C. Alzati e G. Rossetti, Pisa 2008 (= Piccola Biblioteca GISEM, 24), pp. 289–316 (pp.306-307)




Beato Alberto da Pisa

Pisano di origine, Alberto seguì con entusiasmo gli ideali del Poverello, e ne vestì l’abito. Nel 1217 raggiunse a Parigi il concittadino Agnello. Ricoprì la carica di ministro di varie province, della Germania, dell’Ungheria e di Toscana. Alla morte di Agnello, nel 1236, Alberto gli subentrò nella carica di ministro della provincia d’Inghilterra. Infine, nel 1239, fu eletto Generale dell’Ordine, succedendo al discusso frate Elia. Era il primo Generale ad essere sacerdote: da quel momento l’accesso all’Ordine fu consentito solo ai chierici con formazione universitaria, come sancirono le Costituzioni del 1239, in evidente contrasto con il progetto e gli ideali del fondatore. Morì nel dicembre dello stesso anno. Nel 1908 fu aperto il processo per la conferma del culto

Tratto da: G. Zaccagnini, I santi nuovi della devozione pisana nell’età comunale (secoli XII–XV), in Profili istituzionali della santità medievale. Culti importati, culti esportati e culti autoctoni nella Toscana Occidentale e nella circolazione mediterranea ed europea, a c. di C. Alzati e G. Rossetti, Pisa 2008 (= Piccola Biblioteca GISEM, 24), pp. 289–316 (p.306)




Beato Domenico Vernagalli

Beato Domenico Vernagalli

Domenico nacque da Ranieri Vernagalli, quattro volte console di Pisa tra il 1154 e il 1178, capostipite di un ramo dei Casalei di Pisa, abitante in Foriporta, nella cappella di San Jacopo di Mercato, chiesa i cui resti si conservano nel muro del palazzo all’angolo tra via Rigattieri e via San Jacopino. Anche uno dei fratelli di Domenico, Filippo, fu console negli anni 1188 e 1192-1193 e console fu pure, nel 1211, il figlio del beato Domenico, Robertino, detto per lo stato sacerdotale assunto dal padre, Presbiteri, che noi potremmo tradurre ‘del prete’. Domenico dunque si era dapprima formato una famiglia ma, rimasto verosimilmente vedovo, si fece in seguito prete ed entrò in qualità di converso nel vicino monastero camaldolese di San Michele in Borgo, ove è attestato come prete e cappellano negli anni 1199 e 1203. Gli elementi fondamentali della sua vita derivano dall’epigrafe apposta sulla sua tomba nella chiesa di San Michele in Borgo, che indica la data della morte, 20 aprile 1218, e lo definisce sacerdote sottoposto al monastero e fondatore di un ospedale dei Trovatelli. La figura di Domenico ci appare quindi caratterizzata dall’assistenza agli orfani, specchio di quella nuova sensibilità verso i deboli, i miseri e i malati, che appunto si estrinsecava nella fondazione di enti assistenziali.

Alla sua morte, il beato Domenico Vernagalli fu deposto in un sarcofago a cassa rettangolare della fine del III secolo (ora conservato nel Campo Santo di Pisa), ove rimase fino al 1920. Il suo scheletro, ricomposto e avviluppato in paramenti sacri riposa, dopo la ricognizione e lo studio dei suoi resti da parte di Francesco Mallegni, in un’urna in legno e cristallo sotto l’altare maggiore della chiesa di San Michele in Borgo.

Culto:

Il culto, attestato fin dal XIII secolo, fu approvato da Pio IX il 17 agosto 1854. Attualmente la festa è celebrata il 20 Marzo.

Parziale del verbale di studio delle ossa del Beato Vernagalli da parte del Prof. Francesco Mallegni:

Dallo studio delle ossa si stima che la morte sia avvenuta attorno ai 35-40 anni. Reperti ossei completi conservati in un’urna di legno e cristallo sotto l’altare maggiore della chiesa di S. Michele in Borgo a Pisa. Cranio rotondeggiante di forme armoniche con capacità cranica di 1530 cc. Tipologia cranio-facciale da etnia alpinoide, Faccia larga, naso alto e largo con ponte nasale protrudente. Scheletro postcraniale assai robusto evidenziato da: omeri con doccia bicipitale molto profonda e tuberosità deltoidea grande e rugosa; l’omero destro è più appiattito, segno di un maggior impiego funzionale. Femore Sinistro con inserzioni muscolari più evidenti. Conduceva una vita ascetica con consumo prevalente di prodotti caseari. Apporto poverissimo di vegetali e proteine. Sicuramente praticava frequentemente sia il digiuno che l’astinenza.

Bibliografia:

  1. Zaccagnini – F.Mallegni, Il Beato Domenico da Pisa, converso del monastero di San Michele in Borgo. Indagine storica e antropologica, Pisa, ETS, 1996 (Piccola Biblioteca Gisem, 12); M.L. Ceccarelli Lemut, Intorno al monastero: il vescovo Pietro, l’abate Eginone, il prete Domenico Vernagalli, in San Michele in Borgo. Mille anni di storia, a cura di M.L. Ceccarelli Lemut – Gabriella Garzella, Pisa, pacini, 2016, pp. 55-62.

 

Beato Vernagalli




Beata Chiara Gambacorta

Beata Chiara Gambacorti

Beata Chiara Gambacorta

Chiara nacque probabilmente a Firenze nel 1362 da Pietro e dalla sua prima moglie e battezzata con il nome di Tora. Giunta a Pisa nel 1369, allorché il padre, rientrato in patria, dette vita ad un potere signorile, venne promessa in sposa a Simone Massa, cui appena dodicenne fu consegnata, nel 1374. Tre anni dopo il marito morì e la giovane vedova cominciò a manifestare il desiderio di entrare in convento, determinazione accresciuta dalle esortazioni indirizzatele da Caterina Benincasa da Siena, conosciuta durante il soggiorno di quest’ultima a Pisa nel 1375 e con la quale intrattenne una fitta corrispondenza. Chiara decise allora di ritirarsi presso le Clarisse di San Martino, dove appunto prese il nome di Chiara, ma i fratelli a mano armata la riportarono a casa.

Negli anni successivi, nella casa paterna, Chiara ebbe modo di chiarire e fortificare la chiamata alla vita monastica, maturando con maggiore convinzione la propria scelta, grazie anche a Caterina Benincasa e poi ad Alfonso di Vadaterra, vescovo di Jaén, già confessore di Brigida di Svezia. Così, nel novembre 1379 entrò nel convento domenicano di Santa Croce in Fossabandi, ma insoddisfatta dello scarso rigore della vita claustrale, ottenne dal padre la fondazione di un nuovo convento intitolato a San Domenico, il primo convento femminile dell’Osservanza domenicana, ubicato all’inizio di via San Gilio (attuale corso Italia), ove ancora ne sussiste la chiesa. Chiara vi entrò con alcune compagne il 29 agosto 1382.

Il papa Urbano VI il 17 settembre 1385 dette la sanzione ufficiale alla nuova fondazione, ratificata da una lettera vescovile del 4 maggio 1386 e da un successivo privilegio pontificio del 25 luglio 1387, che approvava canonicamente la comunità, dipendente dalla provincia romana dell’Ordine dei Predicatori. Inizialmente Chiara svolse le funzioni di sottopriora per poi diventare priora (dopo il 1400), ufficio che mantenne sino alla morte.

Nel convento era applicata una strettissima e regolamentatissima clausura e la vita di Chiara verteva su due direttrici parallele, da un lato l’ascesi personale in astinenza e povertà, dall’altro il compito di guida e consigliera spirituale.

Rigorosi erano i limiti dei contatti con l’esterno in base alle norme pontificie: allorché il 21 ottobre 1392 Jacopo d’Appiano rovesciò il governo di Pietro Gambacorta e lo fece uccidere, due figli di questi, feriti, si presentarono al convento a chiedere asilo, ma Chiara negò loro l’accoglienza per non incorrere nella scomunica. Più tardi, quando fu la volta delle figlie di Jacopo d’Appiano a domandare rifugio, Chiara le accolse e perdonò Jacopo.

Chiara morì il 17 aprile (lunedì di Pasqua) del 1419 e fu sepolta i piedi dell’altare della chiesa di San Domenico. Dopo le devastazioni della II Guerra Mondiale, che hanno distrutto il convento, il corpo è stato trasferito presso le Suore Domenicane in via della Faggiola ma, avendo ormai da alcuni anni le suore lasciato il convento, è stato traslato nel 2019 nella chiesa intitolata a Santa Caterina d’Alessandria.

Culto:

Il culto si affermò immediatamente e continuò in città, ma solo il 4 marzo 1830 il rescritto del papa Pio VIII ha riconosciuto la legittimità del culto come beata, esteso alla diocesi pisana e all’Ordine domenicano. La festa liturgica è il 17 aprile.

Bibliografia:

  1. Zucchelli, La B. Chiara Gambacorta, la Chiesa ed il Convento di S. Domenico in Pisa. Con appendice di documenti, Pisa, Mariotti, 1914; C. Bruschi, Gambacorta, Chiara, in Dizionario Biografico degli Italiani, LII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1999, pp. 6-7; S. Duval, Chiara Gambacorta e le prime monache del monastero di San Domenico di Pisa: l’osservanza domenicana al femminile, in Il velo, la penna e la parola. Le domenicane: storia, istituzioni e scritture, a cura di G. Festa – G. Zarri, Firenze, Nerbini, 2009, pp. 93-112; Eadem, «La beata Chiara conduttrice». Le vite di Chiara Gambacorta e Maria Mancini e i testi dell’osservanza domenicana pisana, Roma, Edizioni di storia e letterature, 2016 (Temi e testi, 150), capitoli I-II e pp. 131-174.