SANTI EFISIO E POTITO

Pisa, Campo Santo, Spinello Aretino, Martirio dei santi Efisio e Potito, incisione di Carlo Lasinio

Nel corso del Medioevo a Pisa ha assunto rilievo il culto, proveniente dalla Sardegna, dei santi Efisio e Potito.

Nell’isola il culto di Efisio è documentato dall’ultimo ventennio dell’XI secolo, ma l’antroponimo di origine orientale depone a favore di una fase di culto anteriore. La Passio pone il locus depositionis del santo presso Nora e presenta labili elementi topografici che sembrano riferibili ad un martire storico, vissuto in età dioclezianea a Nora, nel cui suburbium si troverebbe il martyrium. Il più antico testimone della Passio, che deriva dalla seconda leggenda di san Procopio e non è stato finora oggetto di studio sistematico o di edizione critica, risale al XII secolo, ma contiene elementi che potrebbero farlo rimontare al secondo quarto del X secolo. Secondo questo racconto Efisio sarebbe nato ad Aelia Capitolina (Gerusalemme) da madre pagana e padre cristiano. A Diocleziano, che aveva scatenato la persecuzione contro i cristiani, si presentò ad Antiochia la madre di Efisio, illustre matrona, per raccomandare il figlio all’imperatore. Costui accolse benignamente il giovane e gli concesse il comando di buona parte del suo esercito per perseguitare i cristiani. Efisio si sarebbe così recato in Italia dove, convertito da un’apparizione dello stesso Gesù, sarebbe stato battezzato a Gaeta. Trasferitosi in Sardegna colle sue truppe, combatté i barbari pagani e, manifestata a Carales l’adesione al Cristianesimo, fu torturato prima dal praeses Iulicus poi dal successore Flaviano e infine decapitato a Nora.

Ad Efisio è stato associato Potito, martirizzato invece a Sardica nella Dacia inferiore, presentato dalla Passio (risalente nelle recensioni più antiche al IX secolo) come un fanciullo tredicenne, decapitato al tempo dell’imperatore Antonino, intorno al 160, trasformato poi nell’Apulia in santo militare bizantino. Un martire orientale dunque, il cui culto, attestato a Napoli nel IX secolo, ha raggiunto la Sardegna, ove si è sviluppata la tradizione della sepoltura presso quella di Efisio.

Secondo Raffaello Roncioni le reliquie dei due santi sarebbero giunte a Pisa nel 1088, ossia l’erudito pisano all’inizio del Seicento le collegava con le prime attestazioni documentarie note relative a rapporti tra Pisa e la Sardegna, ma forse egli non si allontanava molto dal vero.

Culto:

Il culto dei due martiri era presente nella cattedrale pisana già dal XII secolo: il calendario liturgico della fine di quel secolo riportava al 6 giugno la consacrazione dell’altare loro dedicato nel transetto destro, mentre la traslazione delle reliquie da Cagliari sarebbe avvenuta il 20 agosto (trasferimento di cui non si ha notizia da alcun martirologio), ma veniva celebrata il 13 novembre. Il transetto destro venne comunemente definito dei Santi Efisio e Potito e le loro statue ornano ancora le nicchie ai lati dell’altare: a sinistra sant’ Efisio, di Giovanni Battista Lorenzi, del 1592, a destra san Potito, opera di Paolo Borghesi Guidotti da Lucca, terminata nel 1616. Invece, sull’altare riposa il corpo di san Ranieri, ivi posto nel 1688, dopo la sua proclamazione a patrono della città, ed a lui ora è dedicato il transetto.

Ai due santi fu intitolata la cappella che l’arcivescovo aveva all’interno del proprio palazzo, attestata fin dall’inizio del XIII secolo, e si è conservato lo schema di un sermone pronunciato dall’arcivescovo Federico Visconti nella festa dei due martiri, il 13 novembre di un anno compreso tra il 1253 e il 1256. Negli statuti del 1302 la festività compare tra quelle che la città celebrava in modo particolare. Attualmente a Efisio e Potito è dedicata la cappella grande del Palazzo Arcivescovile, fatta costruire intorno al 1711 dall’arcivescovo Francesco Frosini (1702-1733) e affrescata dal 1739 al 1744 dai fratelli Melani, ai quali si deve anche la raffigurazione, sopra l’altare, del martirio dei due santi.

Efisio e Potito furono infine i protagonisti di un ciclo pittorico composto da sei riquadri, dipinti nel corridoio meridionale del Camposanto di Pisa da Spinello Aretino tra il 1390 e il 1392, che rappresenta anche la prima raffigurazione pittorica della loro leggenda. Gli affreschi avevano già subito menomazioni prima che l’incendio provocato dal cannoneggiamento del 27 luglio 1944 li danneggiasse gravemente. L’Archivio fotografico dell’Opera della Primaziale Pisana conserva le immagini riprese prima della II guerra mondiale, mentre le incisioni di Carlo Lasinio, conservatore del monumento, risalenti agli anni 1806-1812, offrono una visione del ciclo.

Bibliografia:

P.G. Spanu, Martyria Sardiniae. I santuari dei martiri sardi, Oristano 2000, pp. 61-73, 76-77, che ripropone due versioni della Passio di Efisio alle pp. 163-173; P. Burchi, Efisio, in Bibliotheca Sanctorum, IV, Città del Vaticano 1964, coll. 939-940; U. Del Re, Potito, santo, martire, in Bibliotheca Sanctorum, X, Città del Vaticano 1968, coll. 1072-1074; M.L. Ceccarelli Lemut, Santi nel Mediterraneo dalla Sardegna a Pisa, in «Bollettino Storico Pisano», LXXIV (2005), pp. 201-208.




VENERABILE LUDOVICO COCCAPANI

Discendente di un’agiata famiglia borghese di ceramisti originaria di Sassuolo e stabilitasi in Toscana alla fine del Seicento, nacque a Calcinaia il 23 giugno 1849, sesto dei sette figli del maestro ceramista Sigismondo e di Fortunata Guelfi. Perduti molto presto i genitori e tre suoi fratelli, crebbe insieme con due sorelle e il fratello maggiore don Lionello, canonico della cattedrale pisana e docente in Seminario. Diplomatosi a Pisa, dopo un breve periodo d’insegnamento nelle scuole elementari, decise di dedicarsi all’assistenza dei poveri e dei bisognosi. Entrato a far par parte del Terz’Ordine Francescano e della Società di San Vincenzo de’ Paoli, ispirò tutta la sua attività alla spiritualità di san Francesco, riconoscendo nella devozione all’Eucaristia e nell’amore alla Vergine i tratti distintivi del suo essere cristiano. Per questo volle unire all’aiuto materiale, che offriva sempre con rispetto e delicatezza, anche il conforto di una parola di fede e di speranza, perché chi aveva sperimentato le miserie della vita potesse ritrovare la luce della Misericordia Divina. Si dedicò all’istruzione religiosa dei fanciulli settimanalmente nella chiesa di Sant’Andrea Forisportam e operò all’interno delle carceri, portando la parola della speranza cristiana tra i condannati. Fu uno dei primi presidenti della Conferenza pisana della società di San Vincenzo nel 1914, rimanendone a capo fino alla morte, avvenuta nella casa natale di Calcinaia la sera del 14 novembre 1931.

Colpito da una polmonite, pochi giorni prima di spirare disse a coloro che aveva vicino: “Quando il Signore verrà a chiamarmi per rendergli conto del mio servizio operato, voglio essere sepolto qui a Calcinaia nel campo comune, in mezzo ai miei poveri con i quali ho trascorso tutta la mia vita”.

Così avvenne ma nel 2015 le sue spoglie sono state traslate in una nuova tomba nella pieve di Calcinaia.

In questa località è a lui intitolata una scuola materna privata nell’abitazione di famiglia, per sua iniziativa donata all’Opera Cardinale Maffi nel 1925. A Pisa la sua memoria è degnamente onorata con l’intitolazione a lui della mensa dei poveri presso la parrocchia di San Francesco.

Culto:

I Pisani videro subito in lui l’incarnazione amorevole degli ideali evangelici. La causa di beatificazione, iniziata a livello diocesano nel 1949 e conclusasi nel 1998, ha portato alla dichiarazione di venerabile da parte del papa Francesco il 7 novembre 2018.

Bibliografia:

  1. Felici, Un cavaliere di Dio e dei poveri. Ludovico Coccapani, Pisa, Nistri e Lischi, 1935.



BEATO GIUSEPPE TONIOLO

Sposo e padre di famiglia, apprezzato professore universitario, dirigente e fondatore di opere sociali, fu uno dei maggiori ideologi della politica dei cattolici italiani e degli artefici del loro inserimento nella vita pubblica.

Nacque a Treviso il 7 marzo 1845 da Antonio, ingegnere idraulico, e da Isabella Alessandri, veneziana di origini armene: dalla madre apprese un’intensa dedizione alle pratiche religiose, dal  padre sentimenti patriottici ed entusiasmi neoguelfi, che trovarono riscontro nel programma educativo del collegio di Santa Caterina a Venezia, dove tra il 1854 e il 1863 Giuseppe frequentò il ginnasio e il liceo e si accostò al tomismo e all’apologetica. Immatricolatosi nel 1863 nella Facoltà politico-legale dell’Università di Padova, si laureò in Legge il 27 giugno 1867.

La sua formazione fu caratterizzata dall’interesse per le connessioni tra economia e morale, per la storicizzazione dell’analisi economica e per l’accostamento pluridisciplinare alle tematiche sociali, impostazioni metodologiche che lo orientarono verso la ‘scuola storica dell’economia’.

Intrapresa la carriera universitaria, il 28 dicembre 1868 venne nominato assistente alla cattedra giuridico-politica dell’Ateneo patavino, il 30 agosto 1873 ottenne l’abilitazione alla libera docenza in Economia politica, il successivo 5 dicembre nella ‘prelezione’ al suo primo corso accademico (Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche) fissò le coordinate del proprio pensiero, ispirate alla tradizione cattolico-liberale italiana di Antonio Rosmini e di Vincenzo Gioberti e fondate sulla critica delle teorie classiche di Adam Smith, di David Ricardo e del liberoscambismo di scuola manchesteriana. Nella sua prospettiva, le ragioni di utilità individuale, che motivano l’homo æconomicus, vanno ricondotte alle componenti antropologiche, religiose ed etiche che rendono l’uomo, nella sua libertà e operosità, soggetto morale e causa efficiente delle leggi economiche e delle relazioni sociali.

Il 20 marzo 1878 ottenne per concorso la cattedra di Economia politica all’Università di Modena. L’anno successivo fu chiamato a Pisa, ove avrebbe insegnato fino al 1917 (dal 1882 come professore ordinario), dando prova di grande sensibilità educativa e di rispettosa compensazione tra le responsabilità di docente in un’università statale e una sempre più appassionata militanza ecclesiale e sociale nelle fila del cattolicesimo.

Il 4 settembre 1878 a Pieve di Soligo sposò Maria Schiratti, da cui ebbe sette figli, tre dei quali morirono in tenera età. Il legame confidente con Maria e la profonda spiritualità vissuta in famiglia furono parte della solida esperienza di fede e di vita che gli sarebbe stata riconosciuta con la beatificazione.

La sua apologetica, d’impianto neoscolastico, segnata da teocentrismo e guelfismo, lo portò ad attribuire al pontefice il ruolo di supremo organismo etico-giuridico nazionale e ne motivò l’impegno pedagogico per un più incisivo attivismo dei laici. Il suo riformismo sociale era coerente con il magistero sociale della Rerum Novarum – «verosimile» la consulenza di Toniolo nella predisposizione dell’enciclica – e con la prospettiva del papa Leone XIII della «conquista cristiana» della società moderna come unico rimedio al dramma della questione sociale. Le sue riflessioni chiamarono i cattolici al confronto con i problemi insiti nella modernità e con le sfide dell’uomo contemporaneo, questioni emergenti e irrisolte per l’intera società italiana.

L’analisi della complessa articolazione della società medievale, di cui colse tensioni e incoerenze, lo portò a identificare nelle manifestazioni della libertà personale e nel ruolo degli organismi intermedi la possibile armonizzazione tra i principi di autorità e di solidarietà a vantaggio dei ceti inferiori, entro un ordine garantito da una limitata presenza dello Stato. Sotto la superficie della storia politico-sociale, colse nella loro concretezza l’affiorare degli orientamenti culturali, l’agitarsi delle forze sociali, il configurarsi di molteplici gradi di civiltà, elementi propri della «storia totale», offrendo un decisivo contributo al progresso culturale del cattolicesimo italiano.

Solo i valori del cristianesimo potevano consentire di edificare «uomini nuovi» e di dare un volto umano al capitalismo, di restituire centralità al lavoro, di aprire la strada alle molteplici manifestazioni della partecipazione nei rapporti tra lavoro e capitale e di identificare il ruolo ‘suppletorio’ dello Stato a vantaggio delle comunità.

Impegnato in prima persona per sostenere la crescita culturale del laicato cattolico, rimosse, con il sostegno di Leone XIII, le resistenze degli intransigenti: nel 1889 promosse l’Unione cattolica per gli studi sociali, quattro anni più tardi fondò, con Salvatore Talamo, la Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, destinata a conseguire prestigio scientifico anche Oltralpe; nel gennaio del 1894 firmò, con altri, il Programma dei cattolici di fronte al socialismo, noto come Programma di Milano.

L’obiettivo di fondo, in sintonia con gli orientamenti dei cattolici europei, era la restaurazione di un ordine sociale, intrinsecamente etico, costruito dal basso da persone rispettose di norme morali di condotta. Così orientata, secondo Toniolo, la propensione solidale delle singole persone – aggregate in corpi intermedi autonomi e con l’apporto delle istituzioni pubbliche locali – consentiva di perseguire efficacemente la giustizia sociale e di proporsi come alternativa al socialismo, al liberalismo e ai ritorni del paganesimo. Un assetto democratico, ispirato da valori cristiani e fondato sulla libertà personale, costituiva l’espressione compiuta di una società aperta, interclassista e dinamica, in equilibrio tra diritti e doveri individuali e tra giustizia commutativa e giustizia distributiva; una società dotata di ordinamenti civili e politici garanti della piena libertà e del progresso per tutti i ceti.

All’inizio del Novecento, di fronte della crescente radicalizzazione delle posizioni di Murri e all’irrigidimento della Santa Sede, Toniolo, sempre fedele al pontefice, si raccolse in un sofferto silenzio, intensificando l’impegno nella ricerca scientifica e a sostegno di due peculiari forme di azione sociale. La prima, la cooperazione, rappresentava una tipologia di impresa privata di piccole dimensioni produttive, fusione di capitale e lavoro, in grado di contribuire alla tenuta dei tessuti sociali e produttivi territoriali, attitudine peculiare delle cooperative di credito per il contrasto all’usura e alla speculazione finanziaria, a vantaggio delle piccole imprese manifatturiere e rurali. La seconda riguardava le unioni operaie, la cui natura e i cui fini vennero riletti da Toniolo in chiave solidaristica e partecipativa.

Nel 1899 Toniolo, con la costituzione della Società cattolica italiana per gli studi scientifici, ispirata al principio neotomistico dell’armonia tra fede e ragione, chiamò gli intellettuali cattolici a confrontarsi con le conquiste della scienza contemporanea. In questa impostazione Agostino Gemelli avrebbe riconosciuto il futuro seme dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, da lui fondata nel 1921 secondo l’esplicita volontà dello stesso Toniolo.

Dopo lo scioglimento dell’Opera dei congressi (1904) collaborò con Medolago Albani alla costituzione dell’Unione economico-sociale, dell’Unione elettorale e dell’Unione popolare, di cui fu presidente effettivo per un quadriennio e, dal 1912, presidente onorario. Fu tra i promotori delle Settimane sociali dei cattolici italiani (1907) e per sei anni i suoi interventi in quella sede toccarono temi «urgenti» e «vivaci»: il lavoro, i contratti di lavoro, il salario, la legislazione sociale, la famiglia, la libertà d’insegnamento. Si schierò a difesa dell’autonomo profilo associativo della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) nella difficile fase della rifondazione all’indomani dell’enciclica Il fermo proposito di Pio X (1905), e si interessò alla fase costitutiva dell’Unione delle donne cattoliche d’Italia, che avrebbe voluto più popolare e meno elitaria.

Da economista elaborò un concetto di «economia moderna capitalistica» inclusivo dell’irreversibilità del progresso scientifico, dei grandi vantaggi materiali dovuti alla crescente integrazione internazionale e dei riscontri positivi del sistema industriale sui salari e sulle disponibilità materiali per i lavoratori. Dall’analisi delle complesse articolazioni del capitalismo industriale, Toniolo trasse la convinzione che per contenere l’impatto sociale delle grandi fabbriche e del grande capitale occorresse puntare sulla diffusione delle piccole e delle piccolissime imprese.

Dall’inizio del Novecento Toniolo intensificò il proprio impegno nella promozione di sodalizi internazionali. Nel 1901 fondò la sezione italiana dell’Association internationale pour la protection légale des travailleurs, precorritrice dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Nel giugno del 1917 propose a Benedetto XV la costituzione di un «Istituto cattolico di diritto internazionale» per orientare alla pace e alla fraternità le coscienze individuali e l’opinione pubblica internazionale.

Morì a Pisa il 7 ottobre 1918. Dal 30 settembre 1940 le sue spoglie sono custodite nella chiesa parrocchiale di Pieve di Soligo.

Autore di numerosissime opere, raccolte in venti volumi, organizzati in sei serie, sotto il titolo Opera omnia di Giuseppe Toniolo, un totale di 8886 pagine, pubblicati tra il 1947 e il 1953.

Culto: Il 7 gennaio 1951 fu introdotta la causa di beatificazione e il 14 giugno 1971 fu emesso il decreto sulle sue virtù con il titolo di venerabile; fu proclamato beato nella basilica di San Paolo fuori le mura a Roma il 29 aprile 2012; la memoria liturgica è stata fissata al 4 settembre, giorno del matrimonio.

Bibliografia:

  1. Carera, Toniolo, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXVI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2019, e la bibliografia ivi citata.



BEATA MARIA

Venerata tradizionalmente come beata, morta il 4 dicembre di un anno imprecisato, probabilmente verso la metà del XIII secolo. La sua vita, in latino, fu pubblicata a Venezia nel 1736 dal camaldolese Guido Grandi, abate di San Michele in Borgo di Pisa, da un codice allora conservato nel monastero pisano di Sant’Anna.

Maria, originaria dell’area orientale di Chinzica, e precisamente della cappella di San Martino, apparteneva ad una famiglia mercantile. Ancora fanciulla, il padre perì in un naufragio e poco dopo morì anche la madre, sì che ella rimase sola con il fratello minore, di cui curò l’educazione. In questo periodo conobbe e frequentò santa Bona, con la quale spesso si recava nella chiesa di San Martino: la santa previde il futuro destino di santità di Maria.

In seguito alle insistenze dei parenti sposò un uomo a lei pari per ricchezza e ceto sociale nonché per ideali religiosi. Dopo una malattia del marito, Maria convinse lo sposo a vivere in castità, intraprendendo da parte sua una vita di rigida penitenza, fatta di cilicio, astinenza dalle carni e un duro letto di legno. Si dedicò anche alle opere di misericordia, assistendo i poveri, gli infermi e i pellegrini e confezionando tovaglie di lino per gli altari. Un passo successivo condusse i coniugi ad una scelta più radicale, abbracciare la vita religiosa. Dopo aver diviso il patrimonio in tre parti uguali, destinate rispettivamente ai poveri e ai monasteri di San Savino e di San Paolo di Pugnano, il marito entrò come converso nell’abbazia camaldolese di San Savino, Maria nel cenobio benedettino di Pugnano. Qui Marino, monaco di San Savino e confessore del monastero (personaggio attestato da un atto del 1223), durante la Messa le tagliò i capelli, le fece indossare l’abito monastico e poi la condusse nella cella, ove visse come reclusa, in penitenza e preghiera, arricchita da Dio da straordinari carismi. Si nutriva di soli legumi ed acqua, astenendosi dal pane e dal vino, e manifestava lo spirito profetico predicendo il futuro e giungendo a conoscere i più riposti pensieri dei propri simili. Alla sua morte, furono i monaci di San Savino a celebrarne il funerale: il corpo fu sepolto nella chiesa monastica di Pugnano, ove però è stato invano cercato.

Bibliografia:

Annales Camaldulenses ordinis sancti Benedicti, a cura di G.B. Mittarelli – A. Costadoni, IV, Venetiis, apud Jo. Baptistam Pasquali, 1759, pp. 181-183; M.L. Ceccarelli Lemut, Santità femminile a Pisa tra XII e XIII secolo, in Medioevo e dintorni. Studi in onore di Pietro De Leo, a cura di M. Salerno – A. Vaccaro, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2011, I, pp. 103-115.




SAN SISTO II PAPA E MARTIRE

                 

Sisto II (… – Roma, 6 Agosto 258) fu il ventiquattresimo papa della Chiesa cattolica che, con quella ortodossa, lo venera come santo. Il suo pontificato durò undici mesi, dal 31 agosto 257 alla morte. L’emblema è la palma.

Le origini di questo papa sono ignote, della sua vita prima dell’elezione è conosciuto solo ciò che riporta il Liber Pontificalis e cioè che era greco. Tale affermazione, però, è probabilmente erronea. Essa derivò dalla falsa convinzione che egli fosse identificabile con il filosofo greco neopitagorico Sesto, autore delle Sententiae, una raccolta di 451 proverbi, tradotta in latino da Rufino Turranio (345-411) e diffusa erroneamente sotto il nome di Sisto.

Sisto succedette al suo predecessore, Stefano I, il 31 agosto 257. Durante il pontificato di quest’ultimo, era sorta una violenta disputa tra la Chiesa di Roma, le Chiese africane ed asiatiche, riguardo al battesimo di quanti erano stati battezzati da eretici o scismatici e che aveva rischiato di finire in una completa rottura tra Roma e le altre Chiese. Sisto II, che Ponzio (Vita Cypriani, capitolo XIV) definiva “sacerdote buono e pacifico” (bonus et pacificus sacerdos), più conciliante di Stefano I, roiuscì a riportare la pace all’interno del mondo cristiano e, tuttavia, come il suo predecessore, incentivò l’uso romano di non ribattezzare i lapsi, ma di ungerli semplicemente col crisma.

Il pontificato di Sisto fu contrassegnato dai due editti di Valeriano, il primo dell’agosto del 257, che vietava le riunioni dei cristiani, imponendo ai vescovi e ai presbiteri di apostatare, comminando l’esilio ai refrattari, mentre il secondo, del 258, ordinava l’immediata esecuzione dei membri del clero che non si fossero sottomessi. A questo si dovette la morte di Sisto, il 6 agosto, insieme con quattro diaconi. Fu sepolto nel cimitero di Callisto sulla via Appia nella cosiddetta cripta dei papi. Il suo luogo di sepoltura, per le evidenti tracce di decorazione e monumentalizzazione succedutesi in varie fasi, è tradizionalmente indicato nella isolata tomba “a mensa” posta sulla parete di fondo dell’ambiente. Altri dati sulla morte di Sisto vengono da alcuni epigrammi del papa Damaso, a cui è attribuibile con certezza l’ultima fase di monumentalizzazione della parete di fondo della cripta. Sisto II venne arrestato, mentre predicava presso il cimitero di Callisto. I soldati avevano ordini precisi. Non si occuparono dei fedeli: andarono dritti verso Sisto, che li attendeva fiancheggiato da due diaconi per parte. Così, sempre con loro, camminò fra i soldati fino al luogo fissato per il supplizio.

Il papa Pasquale I fece traslare i resti di Sisto II nella cappella iuxta ferrata, dedicata a lui e a papa Fabiano, nell’antica basilica di San Pietro in Vaticano.

Culto:

Venerato come santo sia dalla Chiesa cattolica sia da quella ortodossa (che lo commemora il 10 agosto). Il suo nome compare nel Communicantes del canone romano della Messa. La chiesa a lui dedicata a Roma in quello che si riteneva il luogo del suo martirio, attualmente San Sisto Vecchio, all’angolo tra le attuali via delle Terme di Caracalla e via Druso, è menzionata a partire dalla fine del secolo VI, ma le indagini archeologiche condotte negli anni Trenta del Novecento hanno messo in luce elementi di un edificio di culto attribuibile al V secolo.

A Pisa al santo fu dedicata una chiesa eretta in seguito alla vittoria riportata il 6 agosto 1087 insieme con Genovesi, Amalfitani e Romani contro gli empori ora tunisini di al-Mahdiya e Zawila. San Sisto fu considerato come speciale protettore celeste delle fortune pisane sul mare e la sua festa era rivestita di particolare solennità e arricchita da un’indulgenza. L’edificio sacro divenne anche sede, verosimilmente tra l’XI e il XII secolo, di una canonica regolare, cui era annessa pure una scuola. Nel corso del Medioevo la chiesa ospitò le riunioni più importanti dei consigli cittadini e fu sottoposta al patronato dei reggitori del Comune, che la gratificarono di privilegi, esenzioni fiscali e donativi.

Bibliografia:

  1. Amore, Sisto II, in Enciclopedia Cattolica, XI, Firenze, Sansoni, 1953, col. 778; S. Carletti, Sisto II, in Bibliotheca Sanctorum, XI, Roma, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, 1968, coll. 1256-1261; S. Carpentieri, Sisto II. L’audacia di un papa che sfidò l’impero, Siena, Cantagalli, 2008; M.L. Ceccarelli Lemut – S. Sodi, La Chiesa di Pisa dalle origini alla fine del Duecento. Pisanorum ecclesia specialis sancte Romane Ecclesie filia, Pisa, ETS, 2017 (Vos estis templum Dei vivi. Studi di storia della Chiesa, 7), pp. 307-309.



Premessa: cos’è l’agiografia – di Gabriele Zaccagnini

PREMESSA:  COS’E’  L’AGIOGRAFIA  

di Gabriele Zaccagnini

L’agiografia è un genere letterario che ha finalità e segue metodi redazionali diversi da quelli della biografia, anche se i risultati sembrano simili. In realtà, mentre la biografia (dal greco bìos, “vita”, e gráphein, “scrivere”) ha come fine la ricostruzione del profilo storico di una persona, attraverso l’analisi critica della documentazione che la riguarda, lo scopo dell’agiografia (dal greco agios, “santo” e gráphein, “scrivere”), è quello di definire il profilo agiologico di un santo. Ciò significa che la scrittura è centrata sugli aspetti legati al tema della santità. In questa prospettiva la realtà storica è subordinata alla realtà tipologica, nel senso che il modello, il tipo di vita che un santo ha incarnato (il vescovo, il monaco, l’asceta, il pellegrino e così via) è il centro della narrazione, con la conseguenza che per gli agiografi era assolutamente prioritario evidenziare quegli elementi biografici dei santi che li rendevano simili ai modelli piuttosto che quelli peculiari della loro realtà storica. Spesso inoltre i santi erano vissuti molti anni, se non secoli prima degli agiografi, che pertanto non esitavano a costruire i loro racconti sulla base di luoghi comuni e di tradizioni di dubbia autenticità. Ma, lo ripeto, agli agiografi e al loro pubblico, la verità storica non interessava affatto, interessava solo che i personaggi di cui tracciavano il profilo agiografico corrispondessero agli ideali di perfezione che incarnavano e che potessero essere oggetto di imitazione e, soprattutto, di culto. Infine gli agiografi attingevano usualmente a un repertorio, ricco ma comunque limitato, di stereotipi, di luoghi comuni, spesso di matrice biblica, di cui si servivano per favorire nei lettori, o negli ascoltatori, i processi mnemonici e i richiami, i confronti, i paralleli con i personaggi della Sacra Scrittura e con gli altri santi, in modo da rendere ancora più facile la comprensione del messaggio spirituale e teologico che scaturiva dalla vita del santo. Bisogna quindi conoscere e identificare questi “luoghi comuni” non solo per interpretare correttamente il pensiero degli agiografi ma anche per evitare di scambiarli per elementi originali.

 

(Da G. Zaccagnini, San Ranieri, patrono di Pisa. Alle origini della santità dei laici,  Milano, S. Paolo ed., 2010, pp. 45-47)




Lorenzo da Ripafratta

Lorenzo da Ripafratta

Non è chiaro se  l’appellativo derivi dal luogo di nascita, l’omonimo paese a nord di Pisa o, meno probabilmente, dalla famiglia dei signori di Ripafratta. Nato il 23 marzo 1359, Lorenzo fu avviato alla carriera ecclesiastica ma, giunto al diaconato, scelse di entrare nel convento domenicano di S.  Caterina di Pisa, nel 1394-95, distinguendosi per lo zelo nell’osservanza della Regola e per il fervore religioso. Guidò, con il beato Giovanni Dominici, il rinnovamento dell’Ordine. Nel 1400 fu mandato a Venezia, dove portò a termine il noviziato; nel 1405 passò a Cortona come maestro dei novizi, dove ebbe come discepolo sant’Antonino (†1459), che fu poi arcivescovo di Firenze e che dopo la morte del maestro scrisse una lunga lettera commemorativa, fonte preziosa di notizie biografiche. Si dedicò attivamente alla predicazione, un ministero che svolse con sapienza e grandi frutti spirituali. Dopo Cortona fu inviato al monastero di Fabriano e quindi fu eletto vicario generale fra il 1443 e il 1445. Infine si ritirò a Pistoia, dove continuò con zelo l’attività di predicatore. Qui morì, quasi centenario, il 28 settembre 1457 in odore di santità. Fu proclamato beato da Pio IX il 4 aprile 1851. La festa ricorre il 27 settembre. Oltre che a Pisa, è ricordato con particolare devozione a Pistoia, sua città d’adozione, dove nel convento di S. Domenico si conservano alcune sue reliquie.

 

Tratto da: G. Zaccagnini, I santi nuovi della devozione pisana nell’età comunale (secoli XII–XV), in Profili istituzionali della santità medievale. Culti importati, culti esportati e culti autoctoni nella Toscana Occidentale e nella circolazione mediterranea ed europea, a c. di C. Alzati e G. Rossetti, Pisa 2008 (= Piccola Biblioteca GISEM, 24), pp. 289–316 (p.314)




San Ranieri Patrono di Pisa

SAN  RANIERI PATRONO  DI  PISA

San Ranieri Patrono di PisaSan Ranieri Patrono di Pisa

A sinistra: una celebre raffigurazione di San Ranieri ad opera di Giovan Battista Tempesti (Volterra , 1729-Pisa,1804)
A destra: “Viaggio di ritorno della Terrasanta” opera di Andrea di Bonaiuto (XIV sec.), Pisa, Camposanto Monumentale


“Confido che questa figura tanto amata dai pisani rimanga come segno vivo

nella quotidianità di quanti lo onorano e lo pregano”

Mons. Mario Andreazza, Canonico della Primaziale (1925-2004)

San Ranieri rappresenta una delle prime figure di santo laico in Europa. Della sua vita e dei suoi miracoli ci ha lasciato il racconto, scritto negli anni successivi alla morte del santo avvenuta il 17 giugno 1160, un compagno ed amico, il diacono Benincasa, canonico della cattedrale pisana, che ha mediato l’esperienza di vita di Ranieri attraverso la sua personale spiritualità e concezione della santità. Da un punto di vista storico, dunque, non sappiamo quanto esattamente il ritratto corrisponda alla realtà umana di Ranieri. Ma non è questo l’aspetto importante: ciò che a noi interessa, nella prospettiva agiografica, è il modello proposto, l’insegnamento morale e religioso, l’esempio di vita e di spiritualità che attraverso Ranieri l’autore intendeva presentare e proporre al popolo pisano.

Nato intorno al 1115, era l’unico figlio maschio del mercante Glandolfo e di Mingarda ed aveva una sorella, Bella. La famiglia apparteneva al medio ceto mercantile cittadino e verosimilmente risiedeva nell’area orientale di Chinzica, il quartiere a Sud dell’Arno allora fuori delle mura. Ranieri fu infatti istruito da un prete della canonica regolare di San Martino in Chinzica e la madre fu sepolta nella chiesa di Sant’Andrea in Chinzica, che sorgeva nell’area dell’attuale Giardino Scotto, un priorato dipendente dall’abbazia benedettina di San Vittore di Marsiglia. Nella Vita nient’altro si dice sulla casata dei genitori, ma gli eruditi seicenteschi, volendo inserire il santo in un contesto sociale più preciso, immaginarono che il padre fosse un membro della famiglia Scacceri, mercanti del quartiere di Ponte attestati dal pieno Duecento, e la madre una Sismondi Buzzaccarini, importante casata consolare.

Ranieri condusse una vita giovanilmente spensierata, tipica dei giovani del suo ambiente sociale, finché un giorno, mentre si trovava in casa di una sua parente nella località suburbana di Arsiccio (tra San Vito e Barbaricina) e cantava accompagnandosi sulla lira, vide passare un nobile cavaliere originario della Corsica, Alberto Lingenspecus, che dalle sue ricchezze mondane si era convertito ad una vita religiosa come oblato presso i monaci di San Vito di Pisa. Ranieri, spinto dalla sua parente, lo seguì: dall’incontro scaturì la conversione, perfezionata da una piena e completa confessione dei peccati al priore della canonica regolare di Sant’Jacopo di Orticaria. Ben presto apparvero i primi segni della futura santità, come l’emanare profumo o il godere di visioni. In modo del tutto ipotetico potremmo collocare tali eventi intorno al 1134.

Come la maggior parte dei suoi compatrioti, anche il destino di Ranieri appariva legato alle attività marittime e commerciali. Ed infatti egli si recò con una compagnia di mercanti a commerciare in Terrasanta e per quattro anni si dedicò a quell’attività, pur impegnandosi in preghiere e digiuni finché verso il 1137 alcuni prodigi gli fecero comprendere la necessità di dare alla sua vita una svolta radicale: sciolse la società mercantile e lasciò il suo patrimonio alla sorella, invitandola a maritarsi.

Nel ciclo di affreschi dell’ultimo quarto del Trecento che nel Campo Santo Monumentale narrano la vita di Ranieri, opera di Andrea Bonaiuti da Firenze (1377-1379) e di Antonio Veneziano (1384-1386), nel secondo riquadro, di Andrea Buonaiuti, è raffigurato come, durante la traversata, un gran fetore sia uscito da una cassetta contenente formaggi per il mercato sì che i compagni di viaggio si turavano il naso. A Giaffa Gesù gli rivelò di aver provocato quell’odore per fargli comprendere la caducità delle cose mondane e lo invitò a spogliarsi delle sue vesti sul Calvario nello stesso giorno in cui Egli stesso ne fu spogliato, cioè il venerdì santo.

Insieme con altri suoi concittadini, la notte di Natale del 1137 Ranieri si trovava nella cattedrale di Santa Maria della città portuale di Tiro. Poco dopo il Natale, ancora a Tiro, a Ranieri apparve la Vergine Maria annunziandogli la sepoltura nel suo grembo, ossia nella cattedrale pisana. Il Venerdì santo successivo, quindi nel 1138, ricorrenza che in quell’anno cadeva il I aprile, Ranieri depose i suoi abiti sull’altare del Calvario, nella chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, e ricevette dal sacerdote la pilurica, la ruvida veste del pellegrino, e il salterio.

Cominciò così la vita del pellegrino penitente, dedito alla preghiera, ai digiuni e alla visita dei luoghi santi. Compì un’esperienza eremitica sulle mura di Gerusalemme e visitò Hebron, Nazareth – ove si scontrò con il demonio –, la Quarantena, il monte Tabor – ove rivisse misticamente la trasfigurazione di Cristo –, e Betlemme. Proprio nel viaggio verso il Monte Tabor, ove fu ospite del locale monastero benedettino, incontrò due pantere, che al suo passaggio diventarono mansuete come gatti. Al Tabor rimase quaranta giorni e quaranta notti. A Gerusalemme si stabilì in casa di una pia vedova vivendo con l’elemosina donatagli senza che egli la chiedesse e scegliendo come luogo prediletto di orazione la chiesa del Santo Sepolcro, sede del patriarca e del suo capitolo canonicale.

Il lungo soggiorno in Terrasanta rappresentò un’esperienza fondamentale nella sua vita, ove godette di visioni straordinarie e di doni mistici. Dopo il ritorno da Hebron a Gerusalemme ebbe la visione di una caldaia ardente, il cui fuoco egli spense gettandovi solo poche gocce d’acqua. Dio gli rivelò che l’acqua avrebbe in lui spento il fuoco della lussuria e del peccato: da allora, per i restanti vent’anni circa, bevve solo acqua. La visione rappresentò anche un segno del futuro operare miracoli con l’acqua, donde gli venne l’appellativo di Ranieri ex aqua, dall’acqua. Un giorno, mentre pregava nel Santo Sepolcro per la Chiesa e i sacerdoti, Dio gli rivelò di aver posto i sacerdoti nelle mani di Satana. Ranieri, profondamente rattristato, espresse le sue preoccupazioni per il popolo istruito dai sacerdoti e per i monaci ed i canonici, ma gli fu risposto che costoro si sarebbero salvati se avessero adempiuto alle loro promesse, ossia ai loro voti. Di fronte alla disperazione del santo, il Signore gli propose di compiere una dura penitenza per il popolo, facendo quindi di Ranieri un mediatore della salvezza. Il santo così per sette anni digiunò, nutrendosi solo di pane ed acqua ma soltanto due giorni la settimana.

Nella primavera del 1154 Ranieri s’imbarcò ad Accon sulla galea che riportava in patria un importante personaggio del ceto consolare pisano, Ranieri Bottaccio dei Gualandi, di ritorno da un’ambasceria in Egitto. Ormai in mare aperto furono avvistate due galee, inizialmente prese per imbarcazioni pirate, ma poi rivelatasi essere di Pisani al servizio dell’imperatore di Costantinopoli. Questi ultimi invitarono Ranieri Bottaccio a visitare il sovrano, che non era lontano, ma l’ambasciatore, non avendone ricevuto il mandato dal Comune di Pisa, non poté accettare l’invito e fu anzi esortato da san Ranieri a continuare il viaggio: mentre la galea su cui era imbarcato il santo si allontanava, le navi imperiali rimasero quasi ferme e presto scomparvero alla vista. Il rientro fino alla foce dell’Arno fu tranquillo, non turbato dalle tempeste così frequenti nel Mediterraneo orientale. Nell’affresco di Antonio Veneziano nel Campo Santo Monumentale è rappresentata la sosta a Messina, evento verisimile poiché di solito si sostava in quel porto nei viaggi da e per l’Oriente: qui Ranieri svelò l’inganno dell’oste, che vendeva vino annacquato. Con la pilurica egli separò i due liquidi, lasciando cadere in terra l’acqua: ispiratore della mala condotta dell’oste appare il demonio, indicato dal santo nel gatto seduto sulla botte.

La fama di santità di Ranieri, già manifesta in Oltremare, lo aveva preceduto: a Pisa fu onorevolmente ricevuto dai canonici e, dopo un breve soggiorno presso la chiesa di Sant’Andrea in Chinzica, si trasferì nel monastero benedettino maschile di San Vito, al limite occidentale della città. Qui egli continuò la sua vita di penitente, rimanendo sempre laico dal momento che non pronunciò alcun voto monastico e neppure si affiliò come oblato o converso ad alcuna comunità religiosa. Uomo di preghiera e di carità, Ranieri manifestò a Pisa virtù taumaturgiche che lo fecero autore di moltissimi miracoli, liberazione d’indemoniati e guarigioni avvenute tramite l’acqua e il pane benedetti, ma anche resurrezione di morti. Sui demoni aveva potere in modo particolare in Quaresima. A lui ricorrevano persone non solo di Pisa e del contado, ma anche da altre regioni d’Italia e d’Europa, appartenenti ai diversi ceti sociali, un variegato microcosmo che andava dai più elevati membri del ceto consolare ai mercanti, dagli artigiani ai marinai e ai contadini.

Ranieri morì a San Vito la sera di venerdì 17 giugno 1160: in quell’istante tutte le campane di Pisa si misero a suonare spontaneamente. Il suo corpo venne immediatamente trasferito nella cattedrale, ove la Messa funebre fu cantata dall’arcivescovo Villano, e sepolto. Cinque anni dopo i consoli apprestarono una tomba nell’angolo dell’edificio, ossia all’incrocio della navata con il transetto sinistro.

San Ranieri Patrono di PisaSan Ranieri Patrono di Pisa

A sinistra:vecchio altare di San Ranieri scolpito da Tino di Camaino, 1305, Museo dell’ Opera del Duomo di Pisa.
A destra: l’urna attuale nel transetto sud della Cattedrale

Qui un nuovo altare fu eretto per volontà dell’operaio Burgundio di Tado (lo stesso che commissionò il pergamo a Giovanni Pisano) da Tino da Camaino nel 1305-1306, ora conservato nel Museo dell’Opera del Duomo. Esso fu sostituito da un altro opera di Andrea Guardi poco dopo il 1451 – parti del quale costituiscono attualmente l’altar maggiore della chiesa di San Ranierino – e nel 1591 da quello eretto da Giovanni Battista Lorenzi, ancora esistente, nella cui lunetta è il rilievo della Vergine che appare a San Ranieri a Tiro. Di qui, nel marzo del 1688 le ossa del santo, divenuto nel 1633 patrono principale della città e della diocesi, furono traslate nel nuovo e più ricco monumento dell’altare del transetto destro, dove tuttora si trovano.

Nel 2000 fu eseguita sul corpo del santo una ricognizione delle Venerate Spoglie a cura del paleontologo Francesco Mallegni. Furono redatti due verbali, per l’apertura dell’urna l’8 marzo 2000 e la ricognizione delle Venerate Spoglie eseguita nella sacrestia del Capitolo della Primaziale, l’altro il 7 giugno 2000 per la ricollocazione nell’urna. Furono inventariate minuziosamente le ossa, le vesti:  «tutte le parti dello scheletro sono generalmente molto robuste e ben ossificate; ciò sta a significare che esse sono appartenute ad un uomo (alla stessa conclusione portano i tratti del bacino che mostrano morfologie tipiche del maschio); il residuo di faccetta pubica di sinistra e l’usura dentaria depongono per un individuo morto ad un’età compresa tra i 40 e i 45 anni. La coincidenza del valore dell’età alla morte di San Ranieri e del soggetto rappresentato dallo scheletro della presente ricognizione e la constatazione che i presenti resti sono appartenuti ad un uomo, sono una condizione sufficiente e inderogabile perché essi rappresentino le vere reliquie del Santo. In fede, prof. Francesco Mallegni Pisa, 7 giugno 2000».

Culto:

il culto di san Ranieri rimase presente in duomo, ove la documentazione attesta dal 1173 la presenza di un custode del corpo di san Ranieri. Il Capitolo canonicale mantenne una speciale devozione nei confronti del santo, fino a fare del 17 giugno il giorno d’inizio del calendario amministrativo del consesso, come apprendiamo da un atto dell’11 marzo 1253.

Il santo viene invocato “dai pericoli e dai danni della guerra”. Le cronache hanno tramandato il ricordo del grido: San Ranieri è sulle mura! Con cui i difensori del Bastione Stampace, invocando il nostro santo apparso in visione, ricacciarono i fiorentini il 10 agosto 1499. San Ranieri viene invocato dal pericolo delle inondazioni, dalla mancanza di cibo e acqua e dalle malattie, dalle burrasche e dalle tempeste. Per sciogliere il voto fatto al santo per la salvezza della città dall’alluvione del 2 gennaio 1777 fu stabilito di celebrare ogni anno una Messa votiva. La tradizione del Sacro Voto è stata ripresa dal 2012 dalla Compagnia di San Ranieri, associazione cattolica di fedeli laici, riconosciuta dall’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto il 2 febbraio 2011, che raccoglie l’eredità della medievale Confraternita intitolata a san Ranieri.

Bibliografia:

  1. Zaccagnini, La «Vita» di san Ranieri (secolo XII). Analisi storica, agiografica e filologica del testo di Benincasa. Edizione critica del codice C181 dell’Archivio Capitolare di Pisa, Pisa, ETS, 2011 (Piccola Biblioteca Gisem, 26); Intercessor Rainerius ad patrem: il santo di una città marinara del XII secolo, a cura di P. Castelli – M.L. Ceccarelli Lemut, Pisa, Pacini, 2011 (Biblioteca del «Bollettino Storico Pisano». Collana Storica, 57); L’‘invenzione’ di Ranieri il taumaturgo tra XII e XIV secolo: agiografia ed immagini, a cura di P. Castelli – M.L. Ceccarelli Lemut, Pisa, Pacini, 2013 (Biblioteca del «Bollettino Storico Pisano». Collana Storica, 59).

850MO DI SAN RANIERI




SAN VALFREDO

Intorno alla metà dell’VIII secolo alcuni rilevanti personaggi dettero vita al monastero di San Pietro di Palazzolo presso Monteverdi. Pur in mancanza dell’archivio monastico, buon numero di documenti, pervenuti dagli enti con cui l’abbazia ebbe rapporti, si conservano negli Archivi di Stato di Siena e di Firenze. Ci sono anche giunti sia l’atto di dotazione redatto a Pisa nel luglio 754 da uno dei fondatori, il pisano Walfredo del fu Ratcauso, sia, fatto molto importante, la Vita di questi, redatta del terzo abate del cenobio, Andrea, all’inizio del IX secolo.

Secondo il racconto della Vita Walfredi, intorno al quarto anno di regno di Astolfo (luglio 752-luglio 753), il Walfredo, «vir christianissimus et timens Deum», desiderando insieme con la moglie fuggire il mondo e seguire Dio, optò per la vita monastica con il cognato, il lucchese Gundoaldo, e con il vescovo Forte, originario della Corsica: divinamente ispirati, scelsero il luogo di Palatiolum presso Monteverdi, distante da Pisa sessanta miglia, per altro di proprietà di Walfredo, ove sgorgava una copiosa fonte detta del Santo in mezzo a terreni fittamente coperti di vegetazione, aspetti particolarmente adatti all’insediamento monastico: l’acqua per tutte le necessità dei monaci, il legname per le costruzioni, la cucina e il riscaldamento, l’ubertosità per le future coltivazioni, il relativo isolamento propizio alla vita monastica. Ivi eressero una chiesa dedicata a San Pietro e dettero mano al magnum monasterium nell’attuale Podere San Valentino – dove ancora si conserva il toponimo Badivecchia –, a circa 250 m d’altezza e a breve distanza dall’abitato di Monteverdi, e contemporaneamente costruirono in località Pitiliano sul fiume Versilia (attuale Fiumetto) un cenobio dedicato a San Salvatore, ove si ritirarono le mogli con altre nobilissime donne.

Nella loro scelta, Walfredo fu seguito da quattro dei cinque figli (Gunfrendo, Rachis, Taiso e Benedetto) – il primogenito Ratcauso era probabilmente già defunto – e Gundoaldo dall’unico figlio, Andrea, l’autore del testo. Walfredo divenne il primo abate e resse il monastero per dieci anni, morendo un 14 febbraio tra il 762 e il 764. Egli chiese di essere sepolto nel chiostro del monastero  e disegnò su una tavoletta cerata il suo sepolcro nella forma ad arcosolio. A lui successe il figlio Gunfredo, abate per trent’anni. La Vita si chiude con il racconto di un grave pericolo scampato dall’abbazia per intercessione di Walfredo, allorché «gens nefandissima Maurorum ex Mauretania cum classe multa» datasi ad attaccare le isole e la costa, sbarcata a Populonia con l’intenzione di assalire il monastero, fu respinta dagli abitanti della zona.

Dall’inizio del Seicento si è gradualmente sviluppata una tradizione che ha voluto fare di Walfredo il capostipite della casata dei conti Della Gherardesca; a sua volta poi Valfredo è stato erroneamente considerato imparentato con la famiglia reale longobarda. Ma niente consente di collegare Walfredo (seguito dai figli nella vita monastica e qundi privi di discendenti) con una casata attestata due secoli più tardi (dal 967) e operante in ambiti geografici diversi.

 

La seconda sede dell’Abbazia di S. Pietro di Monteverdi (fine secolo XII)

L’Abbazia di S. Pietro in Palazzuolo

Abbazia di S. Pietro in Palazzuolo

Culto:

La festa del santo, il cui culto è stato confermato nel 1861, è celebrata il 15 febbraio a Pisa e Massa Marittima; è ricordato anche nei calendari dell’Ordine Benedettino. A Monteverdi Marittimo (Pisa) viene festeggiato ogni prima domenica di agosto.

Bibliografia:

  1. Giuliani, Il monastero di S. Pietro di Monteverdi dalle origini (secolo VIII) fino alla metà del secolo XIII, tesi di laurea, Università di Pisa, a.a. 1989-1990, relatrice M.L. Ceccarelli Lemut; Vita Walfredi und Kloster Monteverdi. Toscanische Mönchtum zwischen langobardischer und fränkischer Herrschaft, herausg. von K. Schmidt, Tübingen, Max Niemayer, 1991 (Bibliothek des deutschen historischen Instituts in Rom, 73); R. Francovich – G. Bianchi, Prime indagini archeologiche in un monastero della Tuscia altomedievale: S. Pietro di Palazzolo a Monteverdi Marittimo (PI), in IV Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Abbazia di S. Galgano, 26-30 settembre 2006), a cura di R. Francovich, M. Valenti, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2006, pp. 346-352.

 




Ranieri da Rivalto

Nipote di Giordano da Rivalto, entrò nell’Ordine Domenicano e studiò prima a Pisa e poi a Parigi. Insegnò le Sentenze a Pisa e nei maggiori conventi della Provincia domenicana. Erudito, canonista, teologo e ottimo predicatore è ricordato soprattutto come autore di un’opera teologica detta Panteologia o Somma Ranierana o Somma et Nucleus Theologiae. Morì nel 1348, durante la grande epidemia di peste che in quel periodo flagellò il mondo occidentale. È menzionato nella Chronica antiqua del convento domenicano pisano di Santa Caterina, scritta da Domenico da Peccioli, e negli Annales del medesimo convento. In ambedue le fonti si legge che, quando stava per morire, Ranieri si alzò dal letto prostrandosi a terra, affermando che un servo non poteva morire in un letto se il suo Signore era morto in croce.

Culto:

Anche se fin dal secolo XV in diverse fonti s’incontrano espressioni di ammirazione e di venerazione nei suoi confronti, mancano attestazioni di un culto vero e proprio. Non esiste pertanto, una sua festa liturgica.

Bibliografia:

  1. Volpini, Ranieri da Rivalto, domenicano, in Memorie Istoriche di più illustri pisani, IV, Pisa, Prosperi, 1792, pp. 137-158.