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Benvenuto

Il Cardosi riferisce che Benvenuto nacque nella “cappella” di Santo Stefano oltr’Ozzeri da famiglia di contadini. Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, si ritirò a vivere da eremita per il resto dei suoi giorni. Non conosciamo il periodo in cui visse, né abbiamo notizie di un culto liturgico.

Da: G. Zaccagnini, Schede agiografiche, in Devozione e Culto dei Santi a Pisa nell’iconografia a stampa, a c. di S. Burgalassi e G. Zaccagnini, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1997.

Il martirio di Signoretto Alliata

BEATO SIGNORETTO ALLIATA EREMITA

Il martirio di Signoretto Alliata

Giuseppe Cades (1750-1799), Il martirio di Signoretto Alliata, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

Secondo Paolo Tronci, Signoretto, figlio di Alessandro Alliata e di Contessa Gettalebraccia, sarebbe nato a Pisa nel 1269. Nel 1280 lasciò la città per recarsi a Palermo dove, dopo essersi dedicato per qualche tempo al servizio dei malati, si sarebbe ritirato a vivere da eremita in un luogo non lungi dal mare e qui sarebbe stato ucciso in un’incursione dei saraceni. La sua sepoltura sarebbe stata nella chiesa dei Domenicani di Palermo. Nessuna di queste notizie è però verificabile.

Culto: Nonostante la mancanza di fonti storiche sulla sua vita, il culto si è affermato a Pisa. Una reliquia, conservata in un reliquiario di bronzo dorato a forma di braccio (secolo XV) su cui è riportato il nome del beato, era venerata fin dal 1597 nell’oratorio di Sant’Antonio. Soppressa dal granduca Pietro Leopoldo nel 1784 la confraternita, l’arcivescovo Angiolo Franceschi (1778-1806) consegnò la reliquia al canonico Ranieri Alliata che, divenuto arcivescovo di Pisa (1806-1836), la donò nel 1820 al capitolo della cattedrale: fu così collocata nel duomo. La festa ricorreva l’11 gennaio.

Bibliografia:

  1. Sainati, Vite dei Santi, Beati e Servi di Dio nati nella Diocesi Pisana, Pisa, Tipografia Mariotti, 18843, pp. 292-296; W. Dolfi, Le reliquie del Duomo di Pisa, Pisa 2004, pp. 172-173.

San Torpè

SAN TORPÈ MARTIRE

San Torpè

Placido Costanzi, Martirio di San Torpè, olio su tela, 1761, Pisa, cattedrale

L’origine della Chiesa pisana, al pari di altre Chiese locali, si confonde con antiche tradizioni agiografiche, nate per lo più in periodo medievale. Le due tradizioni che riguardano Pisa rimandano all’età apostolica e si riferiscono rispettivamente al presunto sbarco di san Pietro sul litorale pisano e Torpè, un soldato dell’«officium Neronis», che nella nostra città avrebbe incontrato la fede ed il martirio.

Il suo martirio è narrato dalla Passio sancti Torpetis, composta sul finire del VI o all’inizio del VII secolo. Torpè, appartenente all’«officium Neronis», sarebbe giunto a Pisa al seguito dell’imperatore in occasione della costruzione di un tempio dedicato a Diana. Convertitosi per opera dello Spirito Santo, fu battezzato da un «presbyter Antonius», eremita sui monti tra Pisa e Lucca. Incarcerato per la sua fede, fu da Nerone dato in mano al magistrato Satellico e a suo figlio Silvino, che lo sottoposero a numerose torture: fu dapprima legato ad una colonna e percosso a sangue, ma la colonna rovinò a terra schiacciando Satellico e alcuni degli astanti. Il figlio del prefetto, Silvino, decise allora di farlo divorare dalle fiere nell’anfiteatro, ma il primo leone di fronte al segno della croce fatto da Torpè, cadde a terra morto, mentre il secondo si mise a leccargli i piedi. Silvino, acceso d’ira, lo fece condurre prima nel tempio di Diana che Torpè fece crollare con le sue preghiere, lo fece decapitare «in gradum arnensem». La testa del martire rimase a Pisa, mentre il corpo fu abbandonato insieme con un cane ed un gallo su una barca, che approdò in Spagna, «in Portum Sinus», dove la senatrice Celerina, appositamente istruita da una visione divina, gli tributò i dovuti onori e eresse sulla sua tomba una chiesa. Più tardi, morto Nerone, un certo Artemius si sarebbe recato a Sinus e qui avrebbe scritto la passione.

Il testo, ascrivibile ai secoli VI-VII, segue gli elementi stereotipi del racconto agiografico di quell’epoca. Tuttavia le citazioni urbanistiche e toponomastiche riconducono quasi certamente ad un estensore di area pisana, che intendeva non solo far risalire l’origine del cristianesimo locale al I secolo ma anche illustrare e giustificare i contatti, di natura non esclusivamente commerciale, con altre regioni del Mediterraneo, in questo caso la Spagna e/o la Provenza. Ci si è chiesti se si trattasse veramente di un martire locale, il cui culto è attestato in area pisana, o piuttosto se provenisse da altre regioni: nel nome Torpete è stata vista una deformazione di quello della vergine spagnola Treptes, venerata ad Astigi, l’odierna Ecija, mentre lo si è identificato dell’omonimo santo venerato in Provenza, da cui hanno preso nome il golfo e la città di Saint-Tropez.

Più importante appare sia il forte vincolo con la Chiesa di Roma presente in tutta la tradizione agiografica pisana sia l’accento sulle relazioni marittime. Lo stretto rapporto tra la cristianizzazione del nostro territorio e l’attività missionaria della Chiesa romana è chiaramente adombrato dal fatto che Torpè proveniva dalla capitale dell’impero e la miracolosa traslazione del suo corpo per via di mare sottolineano l’importanza delle comunicazioni mediterranee nella diffusione del Cristianesimo. Nell’episodio di Torpè Pisa sembra costituirsi quale ideale tramite tra Roma e le coste del Mediterraneo nord occidentale: il corpo del martire, testimonianza della nuova fede, compie un lungo viaggio per divenire oltremare il seme di una nuova comunità cristiana.

Questo stretto rapporto con Roma potrebbe suggerire un’ipotesi di datazione della Passio sancti Torpetis al periodo dello scisma tricapitolino, originato dalla condanna di alcuni testi operata nel concilio ecumenico Costantinopolitano II del 553, scisma cui aderirono le Chiese dell’Italia settentrionale poi entrate a far parte del regno longobardo. Pisa, divenuta longobarda solo nei primi decenni del VII secolo, potrebbe invece essere rimasta fedele all’osservanza romana, rinsaldando maggiormente i suoi legami con la metropoli: proprio in questo contesto potrebbe essere nata la nostra passio.

Culto:

Torpè è festeggiato il 29 aprile a Pisa, in Sardegna, e a Saint-Tropez (Francia), dove secondo la tradizione locale si troverebbe il suo corpo: i suoi abitanti compiono ogni anno il 29 aprile un pellegrinaggio a Pisa in sua commemorazione.

Sul luogo del martirio, a san Torpè fu eretto in epoca imprecisata un edificio di culto, testimoniato soltanto dal 1084, ove si venerava la reliquia della testa. La chiesetta fu inglobata nel nuovo monastero di San Rossore [vedi San Lussorio (Rossore) martire], in cui il capo fu trasferito. A Torpè fu alla metà del Duecento dedicata una chiesa urbana, posta in prossimità del luogo ove secondo la leggenda il santo avrebbe subito interrogatori e torture, i cosiddetti Bagni di Nerone, avanzi di un impianto termale di età adrianea ancora visibili presso l’odierna Porta a Lucca. Il nuovo edificio sacro, promosso dall’arcivescovo Federico Visconti (1253-1277), fu affidato all’Ordine degli Umiliati. Nel nuovo edificio sacro venne traslata la testa del titolare una volta che il monastero di San Rossore fu abbandonato e qui è ancora conservata, racchiusa dal 1667 in un busto d’argento L’Ordine degli Umiliati fu soppresso nel 1571: nella chiesa pisana subentrarono nel 1584 i Frati di San Francesco di Paola fino alla soppressione del 1784. Dopo un breve periodo certosino, il complesso passò nel 1816 ai Carmelitani Scalzi, provenienti da Sant’Eufrasia, che ancora la officiano.

 

San TorpèSan Torpè

Immagini tratte da www.santiebeati.it

Bibliografia:

  1. Papebrock, De sancto Torpete martyre, Pisis in Hetruria, in Acta Sanctorum Maii, IV, Antverpiae, apud Michaelem Cnobarum, 1685, pp. 5-19; Leggenda di S. Torpè, a cura di M. Salem Elsheikh, Firenze 1977 (Quaderni degli «Studi di Filologia Italiana», 3); F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del sec. VII (a.603), I, Faenza, Stabilimento Grafico F. Lega, 1927 (Studi e Testi, 35), pp. 598-603; G.D. Gordini, Torpes, in Bibliotheca Sanctorum, XII, Roma 1969, col. 628; M. Brando, Il nome: San Torpè e Nerone in Pisa: le Terme “di Nerone”, a cura di M. Pasquinucci – S. Menchelli, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1989, pp. 24-25.

 

Beato Giordano da Rivalto

BEATO GIORDANO DA PISA (DA RIVALTO)

Beato Giordano da RivaltoPreghiera Beato Giordano da Rivalto

Le notizie più attendibili relative alla biografia di Giordano, detto anche, in testimonianze risalenti a non prima del XVI secolo, Giordano da Rivalto, dal nome della località della quale sarebbe stato forse originario, si leggono nella Chronica antiqua del convento domenicano pisano di Santa Caterina, scritta da Domenico da Peccioli. In essa vengono indicate con esattezza la data di morte e la durata del periodo di appartenenza all’Ordine (p. 452): morì nel 1310, nell’Ottava dell’Assunta, tra il 16 e il 21 agosto, e visse nell’Ordine trentuno anni. L’ingresso del novizio nel convento domenicano di Pisa è perciò databile al 1279 e, poiché le costituzioni domenicane vietavano di accogliere i giovani prima dei quindici anni, si può congetturare che la sua data di nascita sia da collocare probabilmente nel 1260.

Dopo avere seguito i corsi in arti e in filosofia, fu mandato dai superiori in data imprecisabile, tra il 1284 e il 1286, agli studi generali più famosi dell’Ordine, Bologna e Parigi. Sappiamo dagli atti del capitolo provinciale della provincia romana che egli fu destinato a leggere le Sententiae di Pietro Lombardo presso gli Studi di San Domenico a Siena nel 1287 e di Perugia nel 1288. Nel 1295 venne assegnato come lettore principale allo Studio di Santa Maria in Gradi a Viterbo. Nel 1303 il capitolo provinciale di Spoleto lo nominò, con altri dieci frati, praedicator generalis. In quel momento egli era già noto come lettore principale di Santa Maria Novella a Firenze, dove aveva iniziato a predicare nel gennaio dello stesso 1303.

Il capitolo provinciale di Rieti (settembre 1305) gli conferì per la seconda volta il titolo di predicatore generale e lo indicò come supplente del magister Remigio de’ Girolami in Santa Maria Novella. Secondo la Chronica di Santa Caterina egli lesse le Sententiae a Firenze nello studio generale (1302-1304) e poi per tre anni (1304-1304) tenne il lettorato principale. Il 14 settembre 1309, in occasione dell’apertura del capitolo provinciale di Firenze, Giordano tornò a predicare sulla piazza di Santa Maria Novella, ma la sua sede era già il convento di Santa Caterina in Pisa, dove fu destinato dallo stesso capitolo a esporre la Bibbia.

Qualche altra notizia biografica si può ricavare, pur con le necessarie cautele, dalle stesse prediche di Giordano. Egli si recò forse a Colonia e in Germania, probabilmente anche in Provenza. Certamente invece viaggiò molto per l’Italia, nella provincia lombarda e in quella romana: nelle sue prediche parla di Milano, di Roma, di Napoli. Morì nel convento domenicano di Piacenza, durante una tappa del viaggio che lo avrebbe dovuto portare a Parigi a insegnare.

La sua predicazione ci è pervenuta attraverso la registrazione sommaria (reportatio) di alcuni uditori laici: 726 prediche, 399 fiorentine e 95 pisane, databili agli anni 1308-1309, mentre altre 232 non sono databili con sicurezza. Le prediche di G. non sono state ancora tutte edite.

Il culmine della predicazione è rappresentato dalle lezioni sul Credo e dalla spiegazione del primo capitolo della Genesi, tenute a Firenze la mattina e la sera durante la Quaresima del 1305, un’impegnatissima trattazione della fede cattolica inserita nella cornice della predicazione sulle letture quaresimali.

Nelle sue prediche Giordano insiste sulla dottrina canonica della penitenza, sottolineando l’importanza e la necessità della contrizione: la penitenza serve a schivare le pene infernali, a tenere lontani già in questa vita i flagelli della guerra e delle pestilenze, ma è soprattutto un invito al banchetto escatologico della vita eterna. Tema profondo della predicazione è l’amor di Dio, non la paura dell’Inferno: la descrizione del Paradiso è più insistita e varia della presentazione delle pene infernali. La pena consiste soprattutto nella perdita del Paradiso. Egli propone un modello di vita cristiana complesso e alto, dove le opere di penitenza e di carità si accompagnano alla preghiera di lode e alla contemplazione.

La necessità di adattare il precetto divino alla complessa realtà fiorentina lo spinge a superare i limiti di un discorso puramente religioso e ad esporre i principî di una dottrina fondata sulla Politica di Aristotele, mediata dall’interpretazione di san Tommaso d’Aquino. L’uomo è “animale sociale e congregale”, e questa ragione dà origine alle città, e giustifica il commercio. Ben consapevole dell’importanza degli scambi commerciali, sui quali si fonda la ricchezza fiorentina, espone con ampiezza la classica giustificazione del commercio, colorandola di un’interpretazione provvidenziale. Tuttavia il commercio è diventato una ruberia, spoliazione del prossimo, peggiore dell’usura. Argomenti inevitabili in città ricche come Firenze e Pisa sono le frodi commerciali, l’usura, i mestieri illeciti (dalla prostituzione femminile e maschile all’arte del giullare), il lusso e lo sperpero dei beni: Giordano li affronta in modo aperto e organico, partendo dal presupposto rigoristico che ogni ricchezza va considerata “mammona iniquitatis”. Sull’usura egli ritorna in tutta la sua predicazione e non trascura di esporre i principî teorici che ne giustificano la condanna, in base alla tradizionale argomentazione che l’usuraio vende il tempo, ossia il nulla, ma pure secondo il trattato De peccato usure di Remigio de’ Girolami, ispirato a sua volta dal De malo di Tommaso d’Aquino.

In tutta la sua predicazione, svolta in anni particolarmente segnati dai contrasti politici interni alle città, Giordano insiste sulle divisioni politiche, sulla violenza, sulla barbarica consuetudine della vendetta, in cui è riposto l’onore delle casate. La violenza, l’omicidio, la superbia, tutto ciò che trova espressione nelle alte torri battute dal vento, si oppone alla dottrina politica del bene comune, identificato nella pace, fondata sulla concordia dei cittadini.

La piena valorizzazione dell’opera giordaniana si è imposta nell’ultimo mezzo secolo sull’onda degli studi dedicati alla predicazione medievale. Quelli che potevano sembrare aridi e secchi riassunti si sono rivelati salde composizioni retoriche costruite secondo il modello del sermo modernus, codificato dalle Artes praedicandi: un discorso centrato sulla spiegazione del thema (il versetto biblico ricavato dalla liturgia del giorno, seguendo le norme della scuola domenicana. Giordano ha utilizzato brevi racconti, ricavati da fonti scritte, da cronache e dalla propria esperienza per illustrare e provare un punto del discorso dottrinale. Ma accanto a ciò, egli ha utilizzato tutte le forme dell’argomentazione esemplare (exempla ficta, proverbi, fiabe), e dimostra di conoscere il repertorio giullaresco. La vivacità del suo stile deve molto all’uso delle similitudini, relative sia alla realtà quotidiana, soprattutto alle pratiche commerciali, sia alle scienze: non solo i bestiari e i lapidari, ma anche la geometria, l’astronomia, l’ottica, la medicina.

Culto:

Nel 1311 a Pisa la Compagnia della Croce stabilì che in agosto venisse celebrata, tra la vigilia e l’ottava dell’Assunta, la Vigilia beati Giordanis. Ebbe così inizio un culto, documentato anche da un’antica lauda, che perdurò ininterrottamente per secoli, sostenuto da una notevole iconografia presente a Pisa e a Colorno (Parma). Le reliquie di Giordano, custodite dapprima nella chiesa di Santa Caterina a Pisa e, fra il 1785 e il 1927, a Colorno presso la cappella di San Liborio, sono state riportate nella nostra città nel 1927, collocate nella chiesa di Santa Caterina sotto l’altare maggiore. Il culto fu approvato dal papa Gregorio XVI nel 1833. La festa, fissata il 6 marzo, è celebrata a Pisa e nell’Ordine Domenicano.

Bibliografia:

  1. Del Corno, Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare, Firenze, Olschki, 1975 (Biblioteca di «Lettere italiane». Studi e Testi, 14); C. Del Corno, Giordano da Pisa (Giordano da Rivalto), in Dizionario Biografico degli Italiani, LV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001.

La predicazione di Giordano da Rivalto

 

La Madonna di sotto gli Organi

La Madonna di sotto gli Organi

LA  MADONNA  DI  SOTTO  GLI  ORGANI

La Madonna di sotto gli Organi

Numerose sono le immagini della Madonna all’interno della cattedrale pisana, initolata all’Assunta e dominato dall’alto della cupola dalla pittura dell’Assunzione della Vergine realizzata da Orazio Riminaldi (1628-1630), ma la più venerata è da secoli la Madonna di Sotto gli Organi, detta così per la sua collocazione. Si tratta di un’icona databile all’inizio del Duecento, di probabile provenienza dal Mediterraneo orientale (presumibilmente da Cipro), opera di un artista di cultura greca. Non ne conosciamo l’arrivo a Pisa, senza dubbio però da collocare negli intensi rapporti intrattenuti in quegli anni con il mondo greco. Una tradizione leggendaria la dice proveniente nel 1255dal castello di Lombrici, pochi chilometri a Nord di Camaiore.

Lo stretto vincolo affettivo che lega quest’opera alla città risale alla fine del Quattrocento: il 23 novembre 1494 troviamo la prima solenne attestazione di culto pubblico, allorché in occasione della proclamazione della liberazione di Pisa dalla dominazione fiorentina ad opera di Carlo VIII, re di Francia, la sacra immagine fu condotta per la città, ma fino al 1789 è corretto parlare di esposizioni e processioni, non di scoprimenti. La Madonna veniva infatti esposta e portata in processione per le vie della città avvolta in sette veli o mantelline.

La tavola era appesa al pilastro destro della crociera che immette nel braccio settentrionale del transetto, esattamente sotto l’organo di Domenico di Lorenzo, andato distrutto nell’incendio del 1595. Dopo l’incendio, nei lavori di risistemazione del duomo, furono progettati due altari simmetrici davanti alle nuove sacrestie: quello di sinistra, dedicato alla Madonna di Sotto gli Organi, iniziato nel 1598, fu consacrato il 16 novembre 1603. Intorno al tabernacolo della Madonna fu realizzato un dipinto che fungeva da coperta, di cui non rimangono notizie, sostituito nel 1616, da una nuova tela, opera del fiorentino Francesco Curradi, a sua volta sostituita nel 1887 da una grata in argento dorato dell’orefica fiorentino Giovanni Grazzini.

Solo nel 1787 il granduca Pietro Leopoldo ordinò lo scoprimento delle immagini: la Madonna di Sotto gli Organi restò scoperta dal 13 dicembre 1789 all’11 giugno 1790 e fu restaurata da Giovan Battista Tempesti. Nel XIX secolo seguirono vari scoprimenti, quando la Madonna veniva esposta alla pubblica venerazione senza alcun velo, portata in processione, infine ricollocata all’altare e coperta.

Nel 1847, anniversario del terremoto del 1846, si decise d’incoronare la Madonna di Sotto gli Organi nel corso di una cerimonia solenne; nuovi diademi furono ricollocati nel 1912 dal cardinal arcivescovo Pietro Maffi a seguito di un furto sacrilego che indignò moltissimo la città. Nel 1949 l’arcivescovo Ugo Camozzo, per preparare gli animi dei fedeli alla celebrazione dell’Anno Santo 1950, organizzò la peregrinatio Mariae attraverso la diocesi di Pisa dal 19 marzo al 25 settembre, peregrinatio che si è ripetuta nel 2018 per il 900o anniversario della dedicazione della cattedrale. Dal 18 gennaio 1974 il capitolo ha deciso di tenerla sempre scoperta.

La Madonna di Sotto gli organi si festeggia il 25 ottobre.

 

PREGHIERA ALLA MADONNA DI SOTTO GLI ORGANI

Patrona di Pisa

Vergine Maria, Madre di Dio e di ogni uomo, che vegli su Pisa e la proteggi,

guarda a noi che ci rivolgiamo fiduciosi alla tua materna intercessione.

Nella Tua immagine scampata alla devastazione del fuoco e venerata con amore dal popolo pisano, Tu ci mostri Cristo tuo Figlio come via che conduce al Padre, come luce che brilla nelle tenebre, come fratello e salvatore di quanti cercano la verità e la vita.

Tu, che ti sei fidata di Dio, ci insegni ad affidarci alla sua volontà e alla sua provvidenza:

nelle nostre difficoltà donaci forza, nelle nostre angosce accresci in noi la speranza;

nei nostri dolori comunicaci la tua gioia.

Il tuo aiuto e il tuo affetto di Madre ci sostengano sulla via del Vangelo perché illuminati da Cristo luce del mondo, lo testimoniamo a quanti incontriamo sul nostro cammino e insieme rendiamo gloria a Dio che vive e regna nei secoli dei secoli.

Amen

Giovanni Paolo Benotto, Arcivescovo di Pisa

 

Bibliografia:

La Madonna di Sotto gli Organi e il restauro del 2007, a cura di W. Dolfi, testi di F. Barsotti, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 2008.

 

Beata Maria Mancini

Beata Maria Mancini Madre e monaca

Beata Maria Mancini

Nata a Pisa, figlia di Bartolomeo e Teodora, battezzata col none di Caterina, andò sposa ancora fanciulla a Baccio Mancini, da cui ebbe due figli, morti poco dopo la nascita. Rimasta vedova, fu rimaritata quindicenne a Guglielmo Spezzalaste, tosatore di panni, col quale visse otto anni e dal quale ebbe sei figli, che ben presto trovarono anche loro la morte. Vedova per la seconda volta, rifiutò un nuovo matrimonio e intraprese una vita di penitenza e assistenza ai bisognosi come terziaria domenicana. Discepola di Santa Caterina da Siena, che aveva incontrato a Pisa nel 1375, da lei ereditò l’ardente desiderio del ritorno dell’Ordine al suo primitivo splendore: entrò così nel monastero domenicano pisano di Santa Croce in Fossabanda, ove prese il nome di Maria. Là però si era registrato un rilassamento della vita claustrale e, insieme con Chiara Gambacorta e altre tre consorelle, si trasferì nel 1382 nel nuovo monastero di San Domenico in via San Gilio (attuale Corso Italia), costruito da Pietro Gambacorta per la figlia, dove si dette vita al primo cenobio osservante dell’Ordine Domenicano. Nella Vita sono riferite le sue numerose celesti visioni e la sua tenera carità. Nel 1419, alla morte di Chiara Gambacorta, seconda priora del monastero, le successe nel governo che tenne fino alla morte, avvenuta il 22 gennaio 1433, a circa ottant’anni.

Le sue spoglie sono ora conservate in un’urna sul secondo altare del transetto sinistro della chiesa pisana di Santa Caterina d’Alessandria; sotto l’altare si trova il corpo della beata Chiara Gambacorta: in questo modo le due consorelle sono di nuovo unite.

Culto:

Il papa Pio IX il 2 agosto 1855 ha confermato il culto. L’Ordine Domenicano la ricorda il 30 gennaio.

Bibliografia:

  1. Razzi, Aggiunta d’alcune vite di beate e religiose. Donne di molto illustre et esemplare conservazione, Firenze, Bartolomeo Sermartelli, 1587, pp. 21-31; S. Duval, «La beata Chiara conduttrice». Le vite di Chiara Gambacorta e Maria Mancini e i testi dell’osservanza domenicana pisana, Roma, Edizioni di storia e letterature, 2016 (Temi e testi, 150), capitoli I, III e pp. 175-194.

Beato Agnello da Pisa

Beato Agnello Da Pisa

Beato Agnello da Pisa

Una pia tradizione vuole che lo stesso san Francesco abbia soggiornato nella nostra città di ritorno da Roma ove il papa Innocenzo III aveva approvato oralmente il suo progetto di vita, evento verosimile e anche probabile, ma non documentato. La prima attestazione documentaria sulla presenza di due frati minori risale al 16 aprile 1219, ma solo il 5 agosto 1228 i frati ottennero dal legato pontificio, il cardinale Goffredo Castiglioni, la chiesa di Santa Trinità benché non riuscissero a prenderne possesso fino al 1247. Accanto ad essa installarono il loro convento e, prima del 1233, dettero inizio alla chiesa di San Francesco.

Agnello, nato intorno al 1194, entrò piuttosto giovane tra i seguaci di Francesco e fu tra i frati che nel capitolo generale del 1217 furono inviati in Francia: qui egli fu il primo custode di Parigi e il primo guardiano del convento della città. aprì nei dintorni di Parigi alcuni conventi, di cui divenne custode, ed ebbe la felice intuizione di fondare una comunità per i Francescani studenti universitari, poiché la città rappresentava un importante centro di studi teologici.

Nel capitolo generale della Pentecoste del 1224, essendo solamente diacono e appena trentenne, ricevette l’incarico d’introdurre l’ordine minoritico in Inghilterra. Accompagnato da otto confratelli il 10 settembre sbarcò a Dover e, dopo una sosta a Canterbury dove rimasero cinque frati, si recò a Londra e poi a Oxford. La provincia inglese, di cui Agnello divenne il primo ministro provinciale, si distinse ben presto non tanto per il numero delle case (raggruppate poi in sei custodie) e dei religiosi, quanto per la virtù e la dottrina dei suoi componenti. Convinto che fosse opportuna per i suoi confratelli una buona formazione culturale, fondò ad Oxford una scuola teologica, dove invitò come docente lo stesso cancelliere dell’Università, Roberto Grossatesta. Anello cedette poi alle pressini che lo volevano prete e fu ordinato, non sappiamo se nel 1230 o 1232: una tarda fonte attribuisce la sua ordinazione all’arcivescovo di Canterbury.

Agnello ritornò in Italia nel 1230 per il capitolo generale e, ancora poco tempo dopo, per trattare con la Curia romana alcuni affari riguardanti il clero inglese e le relazioni di questo con i religiosi. Amico della corte e specialmente del re Enrico III, suo munifico benefattore, si adoperò per ristabilire buoni rapporti tra questo e il duca del Galles.

Morì nel convento di Oxford il 13 marzo 1236 e qui fu sepolto. Qualche anno più tardi, in occasione di una traslazione, la sua salma fu trovata incorrotta e gli fu eretto un monumento, scomparso con la distruzione della chiesa e del convento di Oxford al tempo dello scisma di Enrico VIII.

Culto:

Il culto, prestatogli ininterrottamente nell’Ordine dei Frati Minori e a Pisa, e in Inghilterra fino al secolo XVI, fu confermato il 30 agosto 1892 da Leone XIII, che lo dichiarò beato. È festeggiato a Pisa e nell’Ordine Francescano il 13 marzo.

Bibliografia:

  1. Pratesi, Agnello da Pisa, in Dizionario Biografico degli Italiani, I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960; Il Francescanesimo a Pisa (secc. XIII-XIV) e la missione del beato Agnello in Inghilterra a Canterbury e a Cambridge (1224-1236), Atti del Convegno di Studi (Pisa, 10-11 marzo 2001), a cura di O. Banti – M. Soriani Innocenti, Pisa, Felici, 2003.