Bartolomeo Aiutamicristo

Bartolomeo fu converso camaldolese. Secondo la tradizione era membro della famiglia degli Aiutamicristo, legato al monastero di S. Frediano. Di lui sappiamo solo che morì in odore di santità il 28 gennaio 1224. Il culto è antico, ma la conferma pontificia risale solo a papa Pio IX (1857), ed è esteso, oltre che alla diocesi di Pisa, all’Ordine camaldolese. E’ festeggiato il 12 aprile

Tratto da: G. Zaccagnini, I santi nuovi della devozione pisana nell’età comunale (secoli XII–XV), in Profili istituzionali della santità medievale. Culti importati, culti esportati e culti autoctoni nella Toscana Occidentale e nella circolazione mediterranea ed europea, a c. di C. Alzati e G. Rossetti, Pisa 2008 (= Piccola Biblioteca GISEM, 24), pp. 289–316 (p.302)

Balduino (Baldovino) Acivescovo di Pisa

BALDOVINO Arcivescovo (Baldovino)

Pisano d’origine, non ne conosciamo la famiglia ma è noto il fratello Marchese, avvocato e giudice del Sacro Palazzo Lateranense attestato tra il 1125 e il 1139, in posizione di rilievo nel ceto dirigente cittadino. Baldovino divenne monaco cistercense a Clairvaux, probabilmente prima del 1130; all’inizio del 1133 accompagnò il proprio abate san Bernardo in Italia. Nel 1136 divenne priore del cenobio cistercense di Chiaravalle Milanese e l’anno successivo il papa Innocenzo II lo nominò cardinale prete di Santa Maria «fundentis oleum», ossia Santa Maria in Trastevere, titolo con il quale sottoscrisse nei documenti pontifici dal 17 aprile 1137 al 12 aprile dell’anno successivo. Baldovino fu il primo pisano entrato nell’Ordine Cisterciense e il primo monaco cisterciense divenuto cardinale. Il 22 aprile 1138 Baldovino appare come arcivescovo di Pisa: a lui il papa Innocenzo II confermò la dignità metropolitica sulle diocesi còrse di Aleria, Ajaccio e Sagona, cui aggiunse i due vescovadi sardi di Galtellì e di Civita in Gallura e quello di Massa Marittima in Toscana, la legazia in Sardegna e conferì la primazia sulla provincia ecclesiastica sarda di Torres.

L’interessamento di san Bernardo per l’antico discepolo divenuto arcivescovo trovò il suo coronamento nel privilegio che l’imperatore Corrado III emanò il 19 luglio 1139 a favore di Baldovino, il primo diploma rilasciato da un sovrano alla Chiesa pisana, con cui il sovrano riconobbe il possesso di una serie di beni e di diritti di origine pubblica, pervenuti in vario modo alla Chiesa pisana nei decenni precedenti, e il ripàtico della città di Pisa (dazio sulle merci in transito sull’Arno).

Durante l’episcopato, Baldovino s’impegnò nel recupero e nell’ampliamento delle proprietà e dei diritti della sua Chiesa,e, in continuità con l’azione dei suoi predecessori di piena compartecipazione con gli interessi cittadini, operò in stretta collaborazione con i vertici comunali allo scopo di perseguire il consolidamento e l’espansione territoriale e commerciale della città sia lungo la costa maremmana sia verso l’interno della Toscana.

Fu colto dalla morte il 25 maggio 1145 e definitivamente tumulato il 6 ottobre

Culto:

Pur essendo definito beato dallo stesso san Bernardo e nonostante sia annoverato fra i beati dell’Ordine cistercense, non vi sono attestazioni certe del suo culto.

Bibliografia:

M.L. Ceccarelli Lemut, Magnum Ecclesie lumen. Baldovino, monaco cisterciense e arcivescovo di Pisa (1138-1145), in Monastica et Humanistica. Scritti in onore di Gregorio Penco O.S.B., a cura di F.G.B. Trolese, II, Cesena, Badia di Santa Maria del Monte, 2003 (Italia Benedettina, 23), pp. 613-636

 

GHERARDO (GADDO) DELLA GHERARDESCA

Figlio del conte Janni di Bonifazio di Donoratico della casata Della Gherardesca, entrò, come il fratello Bonifazio, nel monastero domenicano di Santa Caterina a Pisa dove si dedicò allo studio della teologia. Dopo aver studiato a Parigi fu scelto dal Capitolo Provinciale di Lucca come predicatore generale; nel 1288 era  lector nel convento pisano. Morì ancora giovane dopo il 1313.

Culto:

Mancano notizie di culto religioso.

Bibliografia:

Chronica antiqua Conventus Sanctae Catharinae de Pisis, a cura di F. Bonaini, in «Archivio Storico Italiano», VI/2, Firenze 1845, pp. 443-444.

FILIPPO GAMBACORTA GESUATO

Scarsissime le notizie su questo personaggio, membro della famiglia dei Gambacorta. Il canonico Giuseppe Sainati riporta le notizie tratte dall’opera di Paolo Morigi dedicata alla storia dell’Ordine dei Gesuati. Secondo questo testo Filippo entrò giovanissimo nel convento dei Gesuati di Pistoia, fondato nel 1370. Morì in odore di santità (1416?) durante un’epidemia di peste, avendo contratto la malattia nel servizio infaticabile degli appestati.

Culto:

Il culto popolare si diffuse subito dopo la morte, ma non è mai stato riconosciuto ufficialmente. Sue immagini erano presenti a Pisa dal secolo XV. Non esiste una festa liturgica.

Bibliografia:

  1. Morigi, Paradiso de’ Giesuati. Nel quale si racconta l’origine dell’Ordine de’ Giesuati di S. Girolamo, et la vita del B. Giovanni Colombini, Venetia, presso Domenico e Gio. Battista Guerra, fratelli, 1582, pp. 192-193; G. Sainati, Vite dei Santi, Beati e Servi di Dio nati nella Diocesi Pisana, Pisa, Tipografia Mariotti, 18843, pp. 302-304.

Bono

Monaco dell’abbazia emiliana di Nonantola, fu chiamato dal senior Stefano (antenato dei Baldovinaschi) a Pisa, ove nel 1016 istituì un monastero maschile presso la chiesa di San Michele in Borgo, divenendone il primo abate. Fonte principale è il Breve recordationis in cui egli stesso nel 1046 rievoca l’arrivo a Pisa e l’impegno trentennale profuso per la costruzione del complesso edilizio e della formazione del suo patrimonio, dall’iniziale tugurium a «tam perfecta domus ut in tota marcha melior non est». La capacità di cui Bono dette prova nell’edificazione e nello sviluppo di San Michele è ulteriormente testimoniata dal ruolo rivestito nella promozione di altre due importanti fondazioni monastiche pisane, tanto che possiamo annoverarlo tra i personaggi di primaria importanza nella vita religiosa cittadina della prima metà dell’XI secolo. A lui infatti furono transitoriamente affidati l’erigendo cenobio femminile di San Matteo (fondato nel 1027) e la comunità monastica di recente istituita a San Quirico a Moxi (1033). L’opera di Bono è anche individuabile nella rivitalizzazione del monastero cittadino di San Zeno.

Culto:

Sebbene sia festeggiato il 3 aprile dall’Ordine Benedettino, non vi sono attestazioni certe del suo culto prima del sec. XVI.

Bibliografia:

  1. Cammarosano, Bono, in Dizionario Biografico degli Italiani, XII, Roma, Istituto per l’Enciclopedia Italiana, 1970, pp. 268-270; M. Ronzani – V. Ascani – S. Martinelli, Il memoriale di Bono, in San Michele in Borgo. Mille anni di storia, a cura di M.L. Ceccarelli Lemut – G. Garzella, Pisa, Pacini Editore, 2016, pp. 11-25.

Benvenuto

Il Cardosi riferisce che Benvenuto nacque nella “cappella” di Santo Stefano oltr’Ozzeri da famiglia di contadini. Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, si ritirò a vivere da eremita per il resto dei suoi giorni. Non conosciamo il periodo in cui visse, né abbiamo notizie di un culto liturgico.

Da: G. Zaccagnini, Schede agiografiche, in Devozione e Culto dei Santi a Pisa nell’iconografia a stampa, a c. di S. Burgalassi e G. Zaccagnini, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1997.

Il martirio di Signoretto Alliata

BEATO SIGNORETTO ALLIATA EREMITA

Il martirio di Signoretto Alliata

Giuseppe Cades (1750-1799), Il martirio di Signoretto Alliata, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

Secondo Paolo Tronci, Signoretto, figlio di Alessandro Alliata e di Contessa Gettalebraccia, sarebbe nato a Pisa nel 1269. Nel 1280 lasciò la città per recarsi a Palermo dove, dopo essersi dedicato per qualche tempo al servizio dei malati, si sarebbe ritirato a vivere da eremita in un luogo non lungi dal mare e qui sarebbe stato ucciso in un’incursione dei saraceni. La sua sepoltura sarebbe stata nella chiesa dei Domenicani di Palermo. Nessuna di queste notizie è però verificabile.

Culto: Nonostante la mancanza di fonti storiche sulla sua vita, il culto si è affermato a Pisa. Una reliquia, conservata in un reliquiario di bronzo dorato a forma di braccio (secolo XV) su cui è riportato il nome del beato, era venerata fin dal 1597 nell’oratorio di Sant’Antonio. Soppressa dal granduca Pietro Leopoldo nel 1784 la confraternita, l’arcivescovo Angiolo Franceschi (1778-1806) consegnò la reliquia al canonico Ranieri Alliata che, divenuto arcivescovo di Pisa (1806-1836), la donò nel 1820 al capitolo della cattedrale: fu così collocata nel duomo. La festa ricorreva l’11 gennaio.

Bibliografia:

  1. Sainati, Vite dei Santi, Beati e Servi di Dio nati nella Diocesi Pisana, Pisa, Tipografia Mariotti, 18843, pp. 292-296; W. Dolfi, Le reliquie del Duomo di Pisa, Pisa 2004, pp. 172-173.

San Torpè

SAN TORPÈ MARTIRE

San Torpè

Placido Costanzi, Martirio di San Torpè, olio su tela, 1761, Pisa, cattedrale

L’origine della Chiesa pisana, al pari di altre Chiese locali, si confonde con antiche tradizioni agiografiche, nate per lo più in periodo medievale. Le due tradizioni che riguardano Pisa rimandano all’età apostolica e si riferiscono rispettivamente al presunto sbarco di san Pietro sul litorale pisano e Torpè, un soldato dell’«officium Neronis», che nella nostra città avrebbe incontrato la fede ed il martirio.

Il suo martirio è narrato dalla Passio sancti Torpetis, composta sul finire del VI o all’inizio del VII secolo. Torpè, appartenente all’«officium Neronis», sarebbe giunto a Pisa al seguito dell’imperatore in occasione della costruzione di un tempio dedicato a Diana. Convertitosi per opera dello Spirito Santo, fu battezzato da un «presbyter Antonius», eremita sui monti tra Pisa e Lucca. Incarcerato per la sua fede, fu da Nerone dato in mano al magistrato Satellico e a suo figlio Silvino, che lo sottoposero a numerose torture: fu dapprima legato ad una colonna e percosso a sangue, ma la colonna rovinò a terra schiacciando Satellico e alcuni degli astanti. Il figlio del prefetto, Silvino, decise allora di farlo divorare dalle fiere nell’anfiteatro, ma il primo leone di fronte al segno della croce fatto da Torpè, cadde a terra morto, mentre il secondo si mise a leccargli i piedi. Silvino, acceso d’ira, lo fece condurre prima nel tempio di Diana che Torpè fece crollare con le sue preghiere, lo fece decapitare «in gradum arnensem». La testa del martire rimase a Pisa, mentre il corpo fu abbandonato insieme con un cane ed un gallo su una barca, che approdò in Spagna, «in Portum Sinus», dove la senatrice Celerina, appositamente istruita da una visione divina, gli tributò i dovuti onori e eresse sulla sua tomba una chiesa. Più tardi, morto Nerone, un certo Artemius si sarebbe recato a Sinus e qui avrebbe scritto la passione.

Il testo, ascrivibile ai secoli VI-VII, segue gli elementi stereotipi del racconto agiografico di quell’epoca. Tuttavia le citazioni urbanistiche e toponomastiche riconducono quasi certamente ad un estensore di area pisana, che intendeva non solo far risalire l’origine del cristianesimo locale al I secolo ma anche illustrare e giustificare i contatti, di natura non esclusivamente commerciale, con altre regioni del Mediterraneo, in questo caso la Spagna e/o la Provenza. Ci si è chiesti se si trattasse veramente di un martire locale, il cui culto è attestato in area pisana, o piuttosto se provenisse da altre regioni: nel nome Torpete è stata vista una deformazione di quello della vergine spagnola Treptes, venerata ad Astigi, l’odierna Ecija, mentre lo si è identificato dell’omonimo santo venerato in Provenza, da cui hanno preso nome il golfo e la città di Saint-Tropez.

Più importante appare sia il forte vincolo con la Chiesa di Roma presente in tutta la tradizione agiografica pisana sia l’accento sulle relazioni marittime. Lo stretto rapporto tra la cristianizzazione del nostro territorio e l’attività missionaria della Chiesa romana è chiaramente adombrato dal fatto che Torpè proveniva dalla capitale dell’impero e la miracolosa traslazione del suo corpo per via di mare sottolineano l’importanza delle comunicazioni mediterranee nella diffusione del Cristianesimo. Nell’episodio di Torpè Pisa sembra costituirsi quale ideale tramite tra Roma e le coste del Mediterraneo nord occidentale: il corpo del martire, testimonianza della nuova fede, compie un lungo viaggio per divenire oltremare il seme di una nuova comunità cristiana.

Questo stretto rapporto con Roma potrebbe suggerire un’ipotesi di datazione della Passio sancti Torpetis al periodo dello scisma tricapitolino, originato dalla condanna di alcuni testi operata nel concilio ecumenico Costantinopolitano II del 553, scisma cui aderirono le Chiese dell’Italia settentrionale poi entrate a far parte del regno longobardo. Pisa, divenuta longobarda solo nei primi decenni del VII secolo, potrebbe invece essere rimasta fedele all’osservanza romana, rinsaldando maggiormente i suoi legami con la metropoli: proprio in questo contesto potrebbe essere nata la nostra passio.

Culto:

Torpè è festeggiato il 29 aprile a Pisa, in Sardegna, e a Saint-Tropez (Francia), dove secondo la tradizione locale si troverebbe il suo corpo: i suoi abitanti compiono ogni anno il 29 aprile un pellegrinaggio a Pisa in sua commemorazione.

Sul luogo del martirio, a san Torpè fu eretto in epoca imprecisata un edificio di culto, testimoniato soltanto dal 1084, ove si venerava la reliquia della testa. La chiesetta fu inglobata nel nuovo monastero di San Rossore [vedi San Lussorio (Rossore) martire], in cui il capo fu trasferito. A Torpè fu alla metà del Duecento dedicata una chiesa urbana, posta in prossimità del luogo ove secondo la leggenda il santo avrebbe subito interrogatori e torture, i cosiddetti Bagni di Nerone, avanzi di un impianto termale di età adrianea ancora visibili presso l’odierna Porta a Lucca. Il nuovo edificio sacro, promosso dall’arcivescovo Federico Visconti (1253-1277), fu affidato all’Ordine degli Umiliati. Nel nuovo edificio sacro venne traslata la testa del titolare una volta che il monastero di San Rossore fu abbandonato e qui è ancora conservata, racchiusa dal 1667 in un busto d’argento L’Ordine degli Umiliati fu soppresso nel 1571: nella chiesa pisana subentrarono nel 1584 i Frati di San Francesco di Paola fino alla soppressione del 1784. Dopo un breve periodo certosino, il complesso passò nel 1816 ai Carmelitani Scalzi, provenienti da Sant’Eufrasia, che ancora la officiano.

 

San TorpèSan Torpè

Immagini tratte da www.santiebeati.it

Bibliografia:

  1. Papebrock, De sancto Torpete martyre, Pisis in Hetruria, in Acta Sanctorum Maii, IV, Antverpiae, apud Michaelem Cnobarum, 1685, pp. 5-19; Leggenda di S. Torpè, a cura di M. Salem Elsheikh, Firenze 1977 (Quaderni degli «Studi di Filologia Italiana», 3); F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del sec. VII (a.603), I, Faenza, Stabilimento Grafico F. Lega, 1927 (Studi e Testi, 35), pp. 598-603; G.D. Gordini, Torpes, in Bibliotheca Sanctorum, XII, Roma 1969, col. 628; M. Brando, Il nome: San Torpè e Nerone in Pisa: le Terme “di Nerone”, a cura di M. Pasquinucci – S. Menchelli, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1989, pp. 24-25.

 

Beato Giordano da Rivalto

BEATO GIORDANO DA PISA (DA RIVALTO)

Beato Giordano da RivaltoPreghiera Beato Giordano da Rivalto

Le notizie più attendibili relative alla biografia di Giordano, detto anche, in testimonianze risalenti a non prima del XVI secolo, Giordano da Rivalto, dal nome della località della quale sarebbe stato forse originario, si leggono nella Chronica antiqua del convento domenicano pisano di Santa Caterina, scritta da Domenico da Peccioli. In essa vengono indicate con esattezza la data di morte e la durata del periodo di appartenenza all’Ordine (p. 452): morì nel 1310, nell’Ottava dell’Assunta, tra il 16 e il 21 agosto, e visse nell’Ordine trentuno anni. L’ingresso del novizio nel convento domenicano di Pisa è perciò databile al 1279 e, poiché le costituzioni domenicane vietavano di accogliere i giovani prima dei quindici anni, si può congetturare che la sua data di nascita sia da collocare probabilmente nel 1260.

Dopo avere seguito i corsi in arti e in filosofia, fu mandato dai superiori in data imprecisabile, tra il 1284 e il 1286, agli studi generali più famosi dell’Ordine, Bologna e Parigi. Sappiamo dagli atti del capitolo provinciale della provincia romana che egli fu destinato a leggere le Sententiae di Pietro Lombardo presso gli Studi di San Domenico a Siena nel 1287 e di Perugia nel 1288. Nel 1295 venne assegnato come lettore principale allo Studio di Santa Maria in Gradi a Viterbo. Nel 1303 il capitolo provinciale di Spoleto lo nominò, con altri dieci frati, praedicator generalis. In quel momento egli era già noto come lettore principale di Santa Maria Novella a Firenze, dove aveva iniziato a predicare nel gennaio dello stesso 1303.

Il capitolo provinciale di Rieti (settembre 1305) gli conferì per la seconda volta il titolo di predicatore generale e lo indicò come supplente del magister Remigio de’ Girolami in Santa Maria Novella. Secondo la Chronica di Santa Caterina egli lesse le Sententiae a Firenze nello studio generale (1302-1304) e poi per tre anni (1304-1304) tenne il lettorato principale. Il 14 settembre 1309, in occasione dell’apertura del capitolo provinciale di Firenze, Giordano tornò a predicare sulla piazza di Santa Maria Novella, ma la sua sede era già il convento di Santa Caterina in Pisa, dove fu destinato dallo stesso capitolo a esporre la Bibbia.

Qualche altra notizia biografica si può ricavare, pur con le necessarie cautele, dalle stesse prediche di Giordano. Egli si recò forse a Colonia e in Germania, probabilmente anche in Provenza. Certamente invece viaggiò molto per l’Italia, nella provincia lombarda e in quella romana: nelle sue prediche parla di Milano, di Roma, di Napoli. Morì nel convento domenicano di Piacenza, durante una tappa del viaggio che lo avrebbe dovuto portare a Parigi a insegnare.

La sua predicazione ci è pervenuta attraverso la registrazione sommaria (reportatio) di alcuni uditori laici: 726 prediche, 399 fiorentine e 95 pisane, databili agli anni 1308-1309, mentre altre 232 non sono databili con sicurezza. Le prediche di G. non sono state ancora tutte edite.

Il culmine della predicazione è rappresentato dalle lezioni sul Credo e dalla spiegazione del primo capitolo della Genesi, tenute a Firenze la mattina e la sera durante la Quaresima del 1305, un’impegnatissima trattazione della fede cattolica inserita nella cornice della predicazione sulle letture quaresimali.

Nelle sue prediche Giordano insiste sulla dottrina canonica della penitenza, sottolineando l’importanza e la necessità della contrizione: la penitenza serve a schivare le pene infernali, a tenere lontani già in questa vita i flagelli della guerra e delle pestilenze, ma è soprattutto un invito al banchetto escatologico della vita eterna. Tema profondo della predicazione è l’amor di Dio, non la paura dell’Inferno: la descrizione del Paradiso è più insistita e varia della presentazione delle pene infernali. La pena consiste soprattutto nella perdita del Paradiso. Egli propone un modello di vita cristiana complesso e alto, dove le opere di penitenza e di carità si accompagnano alla preghiera di lode e alla contemplazione.

La necessità di adattare il precetto divino alla complessa realtà fiorentina lo spinge a superare i limiti di un discorso puramente religioso e ad esporre i principî di una dottrina fondata sulla Politica di Aristotele, mediata dall’interpretazione di san Tommaso d’Aquino. L’uomo è “animale sociale e congregale”, e questa ragione dà origine alle città, e giustifica il commercio. Ben consapevole dell’importanza degli scambi commerciali, sui quali si fonda la ricchezza fiorentina, espone con ampiezza la classica giustificazione del commercio, colorandola di un’interpretazione provvidenziale. Tuttavia il commercio è diventato una ruberia, spoliazione del prossimo, peggiore dell’usura. Argomenti inevitabili in città ricche come Firenze e Pisa sono le frodi commerciali, l’usura, i mestieri illeciti (dalla prostituzione femminile e maschile all’arte del giullare), il lusso e lo sperpero dei beni: Giordano li affronta in modo aperto e organico, partendo dal presupposto rigoristico che ogni ricchezza va considerata “mammona iniquitatis”. Sull’usura egli ritorna in tutta la sua predicazione e non trascura di esporre i principî teorici che ne giustificano la condanna, in base alla tradizionale argomentazione che l’usuraio vende il tempo, ossia il nulla, ma pure secondo il trattato De peccato usure di Remigio de’ Girolami, ispirato a sua volta dal De malo di Tommaso d’Aquino.

In tutta la sua predicazione, svolta in anni particolarmente segnati dai contrasti politici interni alle città, Giordano insiste sulle divisioni politiche, sulla violenza, sulla barbarica consuetudine della vendetta, in cui è riposto l’onore delle casate. La violenza, l’omicidio, la superbia, tutto ciò che trova espressione nelle alte torri battute dal vento, si oppone alla dottrina politica del bene comune, identificato nella pace, fondata sulla concordia dei cittadini.

La piena valorizzazione dell’opera giordaniana si è imposta nell’ultimo mezzo secolo sull’onda degli studi dedicati alla predicazione medievale. Quelli che potevano sembrare aridi e secchi riassunti si sono rivelati salde composizioni retoriche costruite secondo il modello del sermo modernus, codificato dalle Artes praedicandi: un discorso centrato sulla spiegazione del thema (il versetto biblico ricavato dalla liturgia del giorno, seguendo le norme della scuola domenicana. Giordano ha utilizzato brevi racconti, ricavati da fonti scritte, da cronache e dalla propria esperienza per illustrare e provare un punto del discorso dottrinale. Ma accanto a ciò, egli ha utilizzato tutte le forme dell’argomentazione esemplare (exempla ficta, proverbi, fiabe), e dimostra di conoscere il repertorio giullaresco. La vivacità del suo stile deve molto all’uso delle similitudini, relative sia alla realtà quotidiana, soprattutto alle pratiche commerciali, sia alle scienze: non solo i bestiari e i lapidari, ma anche la geometria, l’astronomia, l’ottica, la medicina.

Culto:

Nel 1311 a Pisa la Compagnia della Croce stabilì che in agosto venisse celebrata, tra la vigilia e l’ottava dell’Assunta, la Vigilia beati Giordanis. Ebbe così inizio un culto, documentato anche da un’antica lauda, che perdurò ininterrottamente per secoli, sostenuto da una notevole iconografia presente a Pisa e a Colorno (Parma). Le reliquie di Giordano, custodite dapprima nella chiesa di Santa Caterina a Pisa e, fra il 1785 e il 1927, a Colorno presso la cappella di San Liborio, sono state riportate nella nostra città nel 1927, collocate nella chiesa di Santa Caterina sotto l’altare maggiore. Il culto fu approvato dal papa Gregorio XVI nel 1833. La festa, fissata il 6 marzo, è celebrata a Pisa e nell’Ordine Domenicano.

Bibliografia:

  1. Del Corno, Giordano da Pisa e l’antica predicazione volgare, Firenze, Olschki, 1975 (Biblioteca di «Lettere italiane». Studi e Testi, 14); C. Del Corno, Giordano da Pisa (Giordano da Rivalto), in Dizionario Biografico degli Italiani, LV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001.

La predicazione di Giordano da Rivalto

 

Copertina Locandina Capodanno Pisano

25 Marzo: Capodanno Pisano

Copertina Locandina Capodanno Pisano

Che cosa è il Capodanno Pisano “ab Incarnatione Dòmini”?

tratto dal volantino distribuito nella Cattedrale ogni anno dagli “Amici di Pisa”:

 

Cari Pisani, cari Ospiti,

nel darvi il benvenuto nella chiesa Cattedrale di Pisa – o chiesa Primaziale, in ricordo della primazia che l’arcivescovo di Pisa (appunto il Primate) aveva su Corsica e Sardegna nel Medioevo – vogliamo ricordarvi alcuni semplici concetti che stanno alla base della cerimonia che ci apprestiamo a vivere oggi, 25 marzo.

1. Ricordiamoci che siamo in chiesa ed è pertanto necessario osservare un rispettoso silenzio e limitare al massimo l’inevitabile brusio dovuto alla gran quantità di persone;

2. Il Capodanno Pisano è una festa religiosa che celebra l’Annunciazione alla Vergine Maria e quindi l’Incarnazione di Gesù Cristo. Dal Medioevo i Pisani considerarono così importante questo giorno da elevarlo a inizio del nuovo anno. E noi lo celebriamo, oggi come ieri.

Sono quindi da evitare parole vuote, superficiali e inappropriate come kermesse, manifestazione, folclore, rievocazione, edizione.

Lo stesso dicasi per le altre Feste Pisane, come la Luminara, San Ranieri, il 6 Agosto, ma anche il Gioco del Ponte e le Regate: che siano o meno eventi legati a ricorrenze religiose, sono FESTE del Popolo Pisano. Il concetto di “festa” è molto più ampio e profondo rispetto a quello di “manifestazione”, perché sottende il coinvolgimento di tutti, senza distinzione tra attori e spettatori.

3. Proprio per questo, la partecipazione festosa dei figuranti nei costumi storici rappresentanti le antiche istituzioni alfee, delle associazioni con i loro gonfaloni, dei cittadini pisani e della provincia, che entrano nella Primaziale dopo aver sfilato per le vie di Pisa con bandiere, tamburi e chiarine serve a solennizzare la Festa e a comunicare la gioia e la devozione del Popolo Pisano a Maria Vergine.

Bandiere, tamburi e chiarine sono gli strumenti – parti integranti della Festa – che la tradizione secolare ha tramandato ai Pisani per esprimersi; sono i gesti e la voce di un popolo che dichiara e rinnova annualmente la propria fede: non sono assolutamente vuoto e inutile “folclore” per turisti, che oltretutto in un ambiente sacro come la Cattedrale sarebbe completamente fuori luogo.

La presenza dei figuranti in Duomo quindi è da considerarsi un atto di fede.

Questa è la giusta chiave di lettura che si deve dare di questa Festa, per cui preghiamo le istituzioni, gli organi di stampa, le televisioni e gli altri mezzi d’informazione di tenerne conto usando i termini e le espressioni appropriate.

Vi salutiamo dunque con gioia augurando a Voi e ai Vostri cari pace e prosperità per il nuovo Anno Pisano a.I.D. (ab Incarnatione Domini) e Vi forniamo il testo latino della Salve Regina, l’antifona che viene cantata al termine della cerimonia, invitandovi a partecipare al canto:

Salve  Regina, Mater misericordiae!

vita, dulcedo et spes nostra, salve.

Ad  te  clamamus,  exsules  filii  Evae

ad  te suspiramus, gementes  et  flentes

in  hac  lacrimarum  valle.

Eia  ergo, advocata nostra, illos tuos

misericordes  oculos  ad nos  converte.

Et  Jesum, benedictum  fructum  ventris  tui,

nobis  post  hoc  exsilium  ostende.

O clemens,  o pia,  o dulcis  Virgo  Maria!

25 MARZO: IL CAPODANNO PISANO

Al tempo dell’Impero Romano l’inizio dell’anno coincideva con le calende di marzo, vale a dire con il primo giorno del mese. Quando Quinto Fulvio Nobiliore ebbe la necessità di diventare console, tale data fu anticipata alle calende di gennaio. Fu Giulio Cesare, nel 45 a.C., a codificare questa innovazione, fissando l’inizio dell’anno con il 1° gennaio.

Nel periodo del solstizio d’inverno, che all’epoca era il 25 dicembre, si celebrava invece il riallungarsi delle giornate, il trionfo della luce sul buio. La Chiesa trasformò poi questa festa pagana in festa cristiana, ricordando in quel giorno la nascita di Gesù Cristo.

Caduta Roma nel 476 d.C. e finite le invasioni barbariche, nel Medioevo nacquero le libere Repubbliche e i liberi Comuni. Così molte città italiane elaborarono diverse unità di pesi e misure, coniarono monete proprie, istituirono proprie leggi e tasse e crearono anche propri calendari, tornando in molti casi a far coincidere l’inizio dell’anno con un evento od una festività primaverile.

I Pisani, almeno fin dal X secolo, decisero di far coincidere l’inizio dell’anno con l’Annunciazione a Maria Vergine (e quindi l’Incarnazione di Gesù), ossia 9 mesi prima del 25 dicembre. Si ottenne così l’Anno Pisano ab Incarnatione Domini (o Christi, o Dei), in anticipo sul calendario comune. Il 25 marzo diventò il primo giorno del nuovo anno solare, che si sarebbe poi concluso il 24 marzo successivo. Il primo documento datato in stile pisano (abbreviato “s.p.”) risale al 985.

Data la prossimità con l’equinozio di primavera, il mese di marzo fu scelto da molte altre città e Paesi per sancire l’inizio dell’anno: dall’Inghilterra alla stessa Roma, dalla Francia alla Russia. Come Pisa, anche Siena e Firenze scelsero il giorno 25, calcolando però un anno di ritardo rispetto alla città alfea.

Il calendario pisano restò in vigore per secoli anche nelle terre che ricadevano in qualche modo sotto l’influenza della Repubblica di Pisa: la costa fra Portovenere e Civitavecchia, le isole di Gorgona, Capraia, Elba, Pianosa, Corsica, Sardegna, Baleari, le città di Gaeta, Reggio Calabria, Tropea, Lipari, Trapani, Mazara, Azov (presso la Crimea), Costantinopoli e inoltre in Tunisia, Algeria, Egitto, Palestina e Siria.

Questo calendario durò fino al 20 novembre 1749, giorno in cui il Granduca di Toscana Francesco I di Lorena ordinò che in tutti gli Stati toscani il primo giorno del gennaio seguente avesse inizio l’anno 1750. Quindi lo Stato Pisano, formato grosso modo dalle attuali Province di Pisa e di Livorno, si uniformò all’uso del calendario gregoriano come il resto della Toscana.

Negli anni ’80 del Novecento si tornò a parlare di questa festa alfea ed oggi il Capodanno Pisano è sempre più atteso e festeggiato, con numerose iniziative culturali che precedono e seguono la data del 25 marzo, ed anche conviviali con il tradizionale Cenone di San Romolo del 24 marzo (l’equivalente di San Silvestro…) a base di ricette tipiche pisane nei ristoranti della Città.

Oggi come ieri l’inizio dell’Anno Pisano è scandito da una sorta di orologio solare: a mezzogiorno di ogni 25 marzo un raggio di sole penetra nel Duomo da una finestra rotonda della parete meridionale e colpisce una mensola posta sul pilastro accanto al pergamo di Giovanni Pisano, sul lato opposto. Il nuovo Anno Pisano non comincia sotto i migliori auspici se le nuvole, durante o dopo tale ora, impediscono al sole di entrare in Cattedrale…

La Festa è preceduta da un corteo storico che, composto da rappresentanti dell’antica Repubblica Marinara, delle due Parti divise in Magistrature, di vari gruppi storici, di associazioni ed istituzioni di Pisa e provincia, si snoda per le vie della Città ed entra in Duomo al suono di tamburi e chiarine. Alla Madonna di Sotto gli Organi, immagine veneratissima da secoli, sono offerti ceri, olio votivo e fiori (la Giunchiglia, ossia il narciso, fiore tipico del periodo, simboleggiante il risveglio della Natura dopo i rigori dell’inverno e quindi benaugurante per il nuovo anno). Si tiene quindi una breve cerimonia religiosa che termina alle 12 esatte quando il Sindaco di Pisa proclama il Nuovo Anno Pisano: “A maggior gloria di Dio, e invocando l’intercessione della Beata Vergine Maria e di San Ranieri nostro Patrono, salutiamo l’anno … [uno in più rispetto al calendario comune]”.

La Salve Regina cantata coralmente suggella il momento di preghiera.

La mensola illuminata dal sole è sorretta da un piccolo uovo di marmo. L’uovo, simbolo di vita, di nascita, di una storia senza fine… come quella della nostra amata Pisa.

A cura di www.associazioneamicidipisa.it e www.compagniadicalci.com